10 aprile 2020

Il bene comune ha bisogno di cura

Aldo Silvani

Aldo Silvani, per molti anni medico presso l’Ospedale Niguarda di Milano, si è sempre interessato alle problematiche relative al rapporto medico/paziente, che significa curare non solo la malattia, ma il benessere del paziente. Le successive esperienze in Africa, in Italia con i migranti esclusi dal servizio nazionale, con i rom negli insediamenti di Milano e Sesto San Giovanni, fino all’ambulatorio della Casa della carità, hanno rafforzato in lui la convinzione che il “farsi carico” dell’ammalato è una componente essenziale della cura. Gli abbiamo chiesto cosa significa, nelle circostanze attuali, “farsi carico”?


Caro Piero Basso,
mi sembra importante, nel difficile momento che stiamo vivendo, analizzare e discutere i problemi che lei solleva. Mi rendo conto che ora più che mai, analizzare il significato, o i significati, del “farsi carico” sia importante. “Farsi carico” può, o dovrebbe, essere esteso al di là dei confini della malattia, al di là dell’ambito che in quanto medico mi è congeniale, a problematiche più ampie, ai bisogni e ai problemi della gente. Contribuire a prendersi cura delle persone portatrici di bisogni per raggiungere quello che un tempo chiamavamo “bene comune”. Del resto sappiamo che la malattia stessa non è sempre e solo il malfunzionamento di un organo o di un apparato, ma disturba l’ammalato come persona dotata di capacità di rapporti sociali. Proprio nel momento di una pandemia che rischia di sconvolgere quello che credevamo il sistema di valori su cui si basa la nostra civiltà, ci siamo accorti di quanto fossero falsi e fragili questi pseudo-valori. Non riusciamo neppure a farci carico dei più basilari elementi su cui si basa il nostro essere donne e uomini in questo mondo, come il culto dei morti e la cura della persona come essere dotato di affetti e di legami famigliari. Sono angoscianti quelle immagini di camion militari che trasportano bare verso luoghi ignoti. 
Mai come in questo momento di epidemia è diventato evidente come non esista un progetto del “farsi carico” condiviso. Vi sono domande fondamentali alle quali bisognerebbe rispondere. Quali sono i rapporti tra l’esplosione epidemica e il problema ecologico? Perché il virus ha colpito ora e con queste iniziali differenze geografiche? Perché non si riesce, o non si vuole, affrontare l’epidemia secondo una metodologia unica? Perché non si riesce neppure a raccogliere i dati in modo uniforme in modo da poterli interpretare e confrontare in modo corretto? Non voglio avventurarmi in ambiti che non mi appartengono e che non conosco. Mi pongo solo domande. E’ vero però che la globalizzazione che ha vinto è quella dell’economia e della finanza, secondo una ideologia liberistica, al servizio di individui e di gruppi e non del bene comune. E dopo l’epidemia ci sarà ancora più ampio spazio per nuove guerre economiche. Non esiste una visione di bene comune, ma esistono beni individuali, o di gruppi, o di categorie sociali che vanno difesi ad ogni costo. E sin da ora è facile intuire come il virus non colpisca indiscriminatamente tutte le categorie sociali. E’ evidente che è molto più difficile la quarantena, l’isolamento, la distanza individuale di sicurezza per chi vive in monolocali o in quattro, cinque, sei persone in piccoli spazi. Penso ai migranti ammassati in spazi ristretti. Penso alla chiusura di attività commerciali o industriali e alla perdita di posti di lavoro. Penso all’emergere di spinte egoistiche nazionali in una UE che peraltro molto solidale non è stata mai. Potrei continuare, ma vorrei ritornare ad un ambito che mi è più congeniale. La prevenzione o, ancor più, la cura in queste situazioni non può essere solo prevenzione o cura della malattia, ma anche, e nel caso di questa infezione virale in modo particolare, presa in carico della persona ammalata o che rischia di ammalarsi, con tutti i suoi problemi. Del resto la tendenza da molti anni non è stata quella di lavorare per il bene comune, ma di promuovere il bene individuale o di gruppi di potere.
Il verificarsi rapido e violento dell’epidemia ci pone di fronte a questi problemi in modo altrettanto rapido e violento. Ma questi problemi sono ben presenti, pur se in maniera non così acuta, anche nella normalità della vita delle persone. Perché la malattia fa parte purtroppo della normalità della vita. La malattia coinvolge non solo la persona ammalata ma anche il contesto sociale nel quale la persona ammalata vive. Basti pensare alla cronicità, ai problemi dell’invecchiamento, alle malattie neoplastiche, alle disabilità in genere. Tutto diventa patologia del gruppo famigliare o sociale nel quale il paziente vive. Purtroppo la tendenza è quella non di promuovere il bene comune, ma di promuovere i beni individuali o di gruppi di potere. Basti pensare, per tornare ad ambiti che più conosco, che il nostro SSN, nato come servizio socio-sanitario e universalistico, è diventato con il passare degli anni solo sanitario e, soprattutto in Lombardia, è sempre più diventato un sistema misto, aprendosi ai privati. E ha sostanzialmente perso il tema della prevenzione.
Non so se sono riuscito a rispondere alla sua domanda. Ma ora non riesco a dire di più.




Nessun commento:

Posta un commento

Lascia qui un tuo commento