25 aprile 2020

Coronavirus 3

A due mesi dall'inizio della crisi, e dopo 40 giorni di confinamento in casa, non posso non tornare sul tema della pandemia, e lo farò cercando di non ripetere cose già dette nelle newsletter precedenti.
Ho diviso il testo in tanti brevi capitoletti, presentati in ordine alfabetico e leggibili separatamente.
Comincio (“Alcuni numeri”) con la presentazione di alcune tabelle: mortalità da coronavirus, paesi che hanno ridotto il contagio, decessi per classe di età.
Quest'ultima tabella ci porta direttamente ai protocolli per l'ammissione alle terapie intensive, magistralmente descritti da Daniela Padoan (“Guai ai deboli”), e, un po' oltre, alla forte denuncia della “Ideologia che uccide” del gesuita Gaël Giraud.
Seguono le presentazioni delle situazioni in alcuni paesi, Iran, Israele, Singapore, Svezia e Svizzera.
Completano il quadro due capitoletti, “La libertà ai tempi del coronavirus” e “La risposta dell'OMS al coronavirus”.
Buona lettura!


Alcuni numeri

Dallo scoppio dell'epidemia siamo quotidianamente bersagliati da valanghe di numeri e da dichiarazioni spesso contrastanti (“abbiamo superato il picco”, “le misure adottate hanno dato risultati incoraggianti, sarebbe irresponsabile allentarle ora”), che potrebbero, anziché aiutare a capire, indurre confusione (e paura).
Di seguito alcuni confronti internazionali che possono aiutarci a inquadrare la situazione.

Attendibilità dei dati
I dati che utilizzo sono tra quelli forniti dalla Protezione Civile e dall'Istituto Superiore di Sanità per quanto riguarda l'Italia e dalla John Hopkins per i confronti internazionali (questi ultimi aggiornati al 23 aprile). Sappiamo che non tutti sono egualmente affidabili: un conto, ad esempio, sono le analisi delle cartelle cliniche condotte dall'ISS, un altro i numeri complessivi di contagiati e di deceduti, che dipendono dal numero di tamponi eseguiti e dalle modalità della loro raccolta, spesso diversa da regione a regione.
Recentemente la Cina ha rivisto la cifra dei morti nella regione dello Hubei, dove ha avuto inizio la pandemia, aumentandola di circa il 50% per tener conto delle persone decedute fuori degli ospedali che non erano state considerate in precedenza.
In Italia l'Istituto Superiore di Sanità ha intrapreso un'analisi sistematica dei decessi verificatisi nelle RSA convenzionate (ne ho parlato ampiamente nella precedente newsletter). Su 3.420 strutture hanno risposto 1.082, nelle quali sono morte, dal 1° febbraio al 14 aprile, 6.773 persone, di cui 2.724 (il 40% del totale) per cause riconducibili al coronavirus. Di queste però solo 364 erano state sottoposte al test del tampone, e sono quindi comprese nelle dichiarazioni ufficiali, mentre tutte le altre morti (sei volte più numerose) sfuggono alle statistiche.
Se questa è la situazione in Cina e in Italia, figuriamoci cosa può accadere in altri paesi. Esemplare il caso dello Yemen, il poverissimo paese arabo teatro della più grande tragedia umanitaria di questi anni, dove i bombardamenti sauditi (con bombe acquistate in Italia) hanno distrutto ospedali, scuole, infrastrutture, e dove metà della popolazione dipende per sopravvivere da aiuti umanitari che stentano ad arrivare, per la scarsa generosità dei donatori e per il blocco imposto dai sauditi. In tutto lo Yemen si è registrato un solo e unico caso di positività al contagio.

L'indice di mortalità: l'Europa in testa
Pur tenendo conto di questi limiti, i dati ufficiali sono gli unici che ci consentono di effettuare dei confronti. Nella tabella seguente riporto l'indice di mortalità da coronavirus per diversi paesi. E' facile vedere che i primi dieci paesi in questa graduatoria sono tutti europei.

Numero di decessi per 100.000 abitanti:
San Marino 118
Belgio 55
Andorra                  48
Spagna                   44
Italia 40
Francia                   31
Gran Bretagna        29
Olanda                   24
Svezia                    20
Svizzera                 18

Quando ne usciremo?
Sappiamo che questa graduatoria può cambiare molto rapidamente via via che nuovi paesi vengono raggiunti dal virus e il numero di decessi cresce velocemente prima di stabilizzarsi e, finalmente, cominciare a diminuire (salva sempre la possibilità di una “seconda ondata”).
Prevedere quando questa discesa avrà inizio è evidentemente impossibile, ma un indicatore grossolano può essere dato dalla percentuale di persone tuttora positive (è chiaro che quando tutto sarà finito non ci saranno più positivi, essendo tutti o guariti o deceduti). Ho trovato solo sette paesi in cui la percentuale di “tuttora positivi” è inferiore al 30% (in Italia siamo al 56%):

Cina                        3%
Austria                   19%
Corea del Sud        19%
Iran                       19%
Svizzera                25%
Danimarca 28%
Germania 28%

Muoiono solo i vecchi
E' un titoletto molto cinico, ma che purtroppo rispecchia la realtà. Per due motivi. Da una parte siamo oggettivamente più deboli e malandati (parlo in prima persona perché da molti anni appartengo alla categoria degli ultra-ottantenni); dall'altra perché, dovendo scegliere, si sceglie di salvare la vita ai più giovani (non contesto la scelta, ma il fatto di essere costretti a scegliere). Il caso delle case di riposo, in particolare lombarde, è emblematico. Sul tema rimando ai due articoli seguenti, “Guai ai deboli” e “L'ideologia che uccide”.
L'Istituto Superiore di Sanità produce bisettimanalmente un rapporto sulle caratteristiche dei deceduti per coronavirus, ricco di molte informarzioni e indicazioni. Di seguito una tabella dei decessi per classe di età relativa a 21.550 deceduti al 20 aprile.
L'ultima colonna riporta il numero di morti per coronavirus ogni 100.000 persone appartenenti alla classe di età considerata

Decessi per classe di età
Classe di età
N.ro decessi
% sul totale
Mortalità/100.000
0-49
238
1,1
0,8
50-59
799
3,7
9,6
60-69
2418
11,2
37,1
70-79
6532
30,3
123
80-89
8750
40,6
277
90 e oltre
2813
13,1
409
Totale
21550
100
40,2

Per un numero più ristretto di pazienti (1.890) sono state esaminate le cartelle cliniche, determinando quali patologie preesistevano alla comparsa del coronavirus. Solo il 3,7% dei pazienti non aveva patologie preesistenti, e il 35,6% ne aveva una o due; il 60,7% ne aveva tre o più. Queste le patologie più frequenti:


Ipertensione arteriosa 69.7%
Diabete mellito tipo 2 31,9%
Cardiopatia ischemica 27,4%
Fibrillazione atriale 21,7%
Insufficienza renale cronica 21,4%


Guai ai deboli!

Nel suo articolato commento a un mio testo di quindici giorni fa, Giancarlo Costadoni denunciava il barbaro processo di selezione tra chi può continuare a vivere e chi deve morire praticato negli ospedali svedesi. Purtroppo si tratta di una triste pratica in uso in quasi tutti i paesi, come ci spiega Daniela Padoan in questo interessante articolo pubblicato da Avvenire di cui riproduco alcuni stralci.

Nelle “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione”, la Società italiana di anestesia e rianimazione ha posto innanzitutto un limite di età all’ingresso alle unità di terapia intensiva. «Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza, e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone».
Le ”Raccomandazioni” sono state pubblicate il 6 marzo 2020, quando si era da poco presa coscienza dell'ampiezza del disastro. Pochi giorni dopo l'epidemia si manifestava in Francia, e puntualmente, il 17 marzo, la Società degli anestesisti e rianimatori pubblicava il documento “Questioni etiche di accesso alla rianimazione e ad altre cure critiche nel contesto della pandemia Covid-19”, in cui spiegava che, in caso di saturazione delle unità intensive, i medici potrebbero trovarsi «costretti a operare scelte difficili e a stabilire priorità per quanto riguarda l’accesso alla rianimazione, le limitazioni del trattamento e il sostegno a fine vita». Tra i criteri su cui basare la decisione all’ingresso figurano «età, co-morbilità, stato cognitivo, fragilità, autonomia, stato nutrizionale e ambiente sociale», qualsiasi cosa questo voglia dire. 
L'indomani è il turno della Spagna, e qualche settimana dopo, il 12 aprile, arrivano le raccomandazioni per gli ospedali svedesi, particolarmente drastiche: nel caso di scarsità di posti in terapia intensiva, «sarà necessario escludere dalle cure le persone dagli 80 anni di età in su, e quelle tra i 60 e 70 anni già colpite da diverse patologie precedenti».
Insensibilmente, nel mezzo della “guerra” contro il virus, sono state introdotte discriminazioni che riguardano demenza, disabilità, valore sociale, aspettativa di vita – sia nella selezione attuata in ingresso al triage ospedaliero, sia in quella implicita nel non far giungere agli ospedali le persone ammalate, lasciando i “sacrificabili”, e in particolare gli anziani, morire nelle proprie case o nei ricoveri, quale che sia il tipo di assistenza al quale possono affidarsi. 
Abituati a considerare le epidemie un residuo del passato, patrimonio di Paesi destinatari al più di aiuti e missioni umanitarie, e a temere i patogeni più come possibili armi biologiche che come risposta della natura alla devastazione degli ecosistemi, davanti a un virus che sta impietosamente mettendo in luce la fragilità e la supponenza dell’Occidente siamo rientrati quasi inavvertitamente nella legittimazione della pulsione omicida che giace nel fondo oscuro della nostra cultura. È questo, forse, lo scossone più violento dato alle fondamenta di una società che si è faticosamente risollevata dalle macerie etiche e politiche del Novecento, dimenticando l’abisso a cui ha condotto la presunta competenza su chi scegliere e chi scartare, teorizzata già da Platone nel Libro V della “ Repubblica” e resa sistema dalle applicazioni politiche del darwinismo sociale. 
Il diffondersi del coronavirus ci ha mostrato l’abbandono di anziani poveri negli ospizi e la loro morte di massa; di detenuti nelle carceri, dove rivolte sedate nel silenzio hanno causato decessi attribuiti a suicidi per overdose di farmaci; di disabili in strutture sovraffollate, di senzatetto nelle strade, di migranti nei centri per l’espulsione, di rifugiati in lager chiamati campi profughi. Se la pandemia, come tutti gli eventi estremi, può avere una funzione di rivelazione, è quella che ha indicato papa Francesco il 27 marzo, in una piazza San Pietro sferzata dalla pioggia, impartendo l’indulgenza plenaria ai morituri, ai malati di Covid-19, ai loro familiari, agli operatori sanitari, a tutti coloro che si prendono cura di chi sta male. «È il tempo del nostro giudizio – ha detto – il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Il tempo «di trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati, e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà». 



Iran

All'inizio della pandemia si è parlato molto dell'Iran, accusato di nascondere migliaia di morti. L'articolo di Marina Forti, buona conoscitrice delle vicende medio-orientali, ha il merito di riportare il discorso alla realtà dei fatti, senza nascondere problemi e difficoltà.

Il coronavirus ha colto l'Iran impreparato, come tutti i paesi del mondo (tranne forse la Corea del Sud e qualche altro paese asiatico, memori dell'esperienza della SARS meno di vent'anni fa).
Certamente non ha aiutato a prendere immediate misure di isolamento, che avrebbero potuto rallentare l'espansione del virus, il fatto che i primi casi si siano manifestati nella città santa di Qom, patria di Khomeini e centro spirituale sciita, interessata da un continuo flusso di studiosi e di autorità religiose e politiche.
Già da inizio marzo venivano prese appropriate misure di contenimento, compreso il controllo della temperatura per tutti gli automobilisti in uscita da Teheran e la sospensione dei festeggiamenti per il capodanno persiano.
Tra i provvedimenti presi anche la liberazione “temporanea” di molte migliaia di detenuti per evitare la diffusione del contagio nelle carceri, anche se le diverse fonti differiscono riguardo alla presenza, tra i detenuti liberati, anche di oppositori politici.
Come ovunque, a soffrire di più sono i ceti popolari, tra cui i moltissimi che se non lavorano anche solo un giorno non portano a casa il cibo, persone che non possono certo permettersi di restare a casa, assistiti da un sistema pubblico di sussidi, e da una rete di volontariato e associazioni benefiche. Ma tutto è difficile in un paese piegato da anni di boicottaggio da parte degli Stati Uniti.
Anche il sistema sanitario, di buon livello ma appena sufficiente in tempi normali, soffre per le sanzioni americane. E' vero che formalmente medicinali e materiale sanitario sono esclusi dall'embargo, ma l'esclusione delle banche iraniane dai circuiti internazionali ne rende estremamente difficoltoso l'acquisto.



Israele

In Israele il direttore del Mossad, la potentissima agenzia spionistica del paese, è in quarantena dopo aver incontrato il ministro della sanità, risultato in seguito positivo al coronavirus. Ma perché quell’incontro?

Semplice, il Mossad è stato determinante nell'acquisizione di attrezzature mediche e know how tecnologico dall'estero.
Essendo le sue azioni per definizione segrete, non è dato sapere quali canali siano stati attivati. E’ certo però che l’agenzia è riuscita ad acquisire anche materiali già destinati ad altri.
Secondo un funzionario, gli sforzi del Mossad sono stati più facili nei paesi non democratici in cui le agenzie di intelligence hanno più influenza sui governanti.
Non tutte le operazioni hanno avuto successo. Almeno una volta in Germania è stato sequestrato un carico che stava per essere spedito, mentre in India gli agenti doganali hanno ritardato la spedizione di un carico di disinfettante, spedizione poi annullata.
E così, mentre il ministero della sanità è in forte imbarazzo per essere giunto impreparato alla pandemia, il Mossad verrà ricordato come il grande salvatore della patria.



La libertà ai tempi del coronavirus

Come è possibile che un popolo, avvezzo a contestare qualsiasi cosa, sia improvvisamente diventato docile e disponibile ad accogliere positivamente provvedimenti che ne hanno fortemente limitato la libertà? Quanto ha influito la paura della morte? Quanto i provvedimenti governativi sono stati razionalmente considerati i più idonei per affrontare la crisi?

Nella confusione iniziale, quando poco si sapeva della contagiosità e della pericolosità del nuovo virus, le autorità hanno fatto leva sulla paura, con palinsesti televisivi che non lasciavano spazio ad altri argomenti e martellanti e imperative pubblicità, “Resta a casa, lavati le mani...”, con questo infantilizzante uso del tu, ormai diventato cattiva abitudine della comunicazione.
Il divieto di uscire senza provata necessità, da certificare con apposita dichiarazione, ha trasformato anche una piccola passeggiata solitaria in un reato passibile di sanzioni, colpevolizzando il povero corridore per la futilità della sua azione, mentre medici, infermieri e soccorritori si fanno in quattro per il bene suo e di tutti noi, salvo poi impedire a quegli stessi “eroi”, come a tutti i lavoratori, di potersi godere, nelle ore di riposo, un po’ di aria aperta.
Ora, in vista della cosiddetta “fase due”, si sta studiando una “app” da installare sullo smartphone per tracciare gli spostamenti ed essere avvertiti nel caso si incontri una persona che risulti poi infetta. Oltre a problemi tecnici, si è posto il problema del rispetto della privacy. Il garante è stato netto: non potrà essere utilizzata se non su base volontaria. Il problema è che per essere efficace il sistema deve essere usato da almeno il 60% della popolazione e, se l’app non è obbligatoria, come raggiungere questo risultato? Semplice, risponde il presidente della regione Veneto Zaia, chi non la usa non si potrà muovere liberamente (ha poi dovuto fare marcia indietro). E i milioni di italiani che non hanno uno smartphone? Beh, potrebbero indossare un bel braccialetto elettronico.


La risposta dell'OMS al coronavirus

Il presidente Trump ha sospeso il finanziamento americano all'OMS, accusando l'organizzazione di non aver saputo affrontare la crisi del coronavirus. Il Guardian ha ricostruito ciò che è accaduto all'interno dell'organizzazione nei giorni cruciali di inizio della pandemia.

Il 22 gennaio il comitato di emergenza dell'OMS si è riunito per decidere se dichiarare una "emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale". In collegamento vi erano i migliori esperti di ogni parte del mondo. 
Dovevano valutare la contagiosità della malattia, cioè se potesse essere contenuta senza un allarme mondiale con tutte le conseguenze economiche che ne sarebbero derivate, o se il virus si stava diffondendo liberamente. In quel caso non c'era un momento da perdere. 
Il comitato era diviso e perciò si attesero nuovi dati. 
Il direttore generale dell'OMS avrebbe potuto decidere autonomamente ma ha ritenuto opportuno essere supportato da almeno un’ampia maggioranza, e così la dichiarazione di pandemia è arrivata una settimana dopo la prima riunione.
Per giustificare la decisione di sospendere i fondi degli Stati Uniti all’OMS – e sfuggire alle proprie responsabilità -, Trump ha sostenuto che l’organizzazione non funziona ed è “sotto il controllo della Cina”, come se nell’OMS gli Stati Uniti non fossero rappresentati.
Ancora una volta una crisi mondiale è stata oggetto di scontro fra superpotenze mentre un leader narcisista per due mesi ha ignorato l’allarme lasciando gli Stati Uniti in balia di sé stessi e ha trovato un comodo capro espiatorio nell’Organizzazione mondiale della sanità.



L'ideologia che uccide

Perché un’epidemia che avrebbe potuto essere frenata con danni e sofferenze appena più gravi di una normale influenza, si è invece trasformata in tragedia? Intervenendo su Civiltà cattolica, il gesuita Gaël Giraud attribuisce questa disfatta allo smantellamento negli ultimi decenni del sistema sanitario pubblico in tutto l’Occidente, un’opinione non certo isolata e che i decisori politici non potranno ignorare.

“Ciò che affermano gli esperti è che sarebbe stato relativamente facile frenare la pandemia praticando lo screening sistematico delle persone infette sin dall’inizio dei primi casi; monitorando i loro movimenti; ponendo in quarantena mirata le persone coinvolte...”, scrive Giraud. Non avendo predisposto gli strumenti di prevenzione necessari né ascoltato gli avvertimenti dell’Organizzazione mondiale della sanità, i governi sono ricorsi a un antico metodo: il confinamento che, in assenza di una strategia, sembrava l’unica scelta possibile.
La rapida diffusione del contagio ha reso evidente che “nessun sistema economico può sopravvivere senza una sanità pubblica forte e adeguata”. L’ideologia neoliberista, con il suo corollario di liquidazione del servizio pubblico, ha dimostrato tutta la sua fragilità.
“Senza un efficiente servizio sanitario pubblico, che consenta di curare tutti, non esiste più alcun sistema produttivo praticabile durante un’epidemia. E questo per decenni.” Se non si affronteranno le cause che hanno portato a questo sconquasso, le epidemie si ripeteranno: occorre “ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo… La deforestazione – così come i mercati della fauna selvatica di Wuhan – ci mette in contatto con animali i cui virus non ci sono noti. Lo scongelamento del permafrost minaccia di diffondere pericolose epidemie, come la spagnola del 1918, l’antrace, e altri. Lo stesso allevamento intensivo facilita la diffusione di epidemie.”
Nell’immediato è indispensabile rafforzare il sistema sanitario e organizzare un’ordinata uscita dal confinamento, ma la salute non è l’unico bene comune. “Anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società”.
“Vogliamo sperare – conclude Giraud - che questa pandemia sia un’opportunità per indirizzare le nostre vite e le nostre istituzioni verso una felice sobrietà e verso il rispetto per la finitudine del nostro mondo. Il momento è decisivo”.



Singapore

Il modo con cui Singapore ha affrontato la pandemia sembrava un modello per tutti: immediatamente identificati i primi casi e tutti i loro contatti, la diffusione del virus si era arrestata senza sensibili vincoli alle attività sociali ed economiche. Poi si sono accorti che c'erano gli immigrati.

Fino a pochi giorni fa, il modello di intervento di Singapore era ritenuto uno dei più efficaci, assieme a quelli di Corea del Sud, Taiwan e Cina. Ora le vittime stanno aumentando in modo preoccupante, spingendo il governo a imporre una parziale quarantena. 
La piccola città-stato conta 6 milioni di abitanti, ma oltre un milione sono lavoratori stranieri, gran parte dei quali quasi totalmente esclusi dalle rete di sicurezza sociale. Ed è proprio negli spazi angusti dove vivono i migranti e nei cantieri dove lavorano che il virus si è diffuso arrivando a contagiare nelle ultime due settimane 9000 persone, quando nei due mesi precedenti i casi registrati erano stati circa 300.
Le autorità, che avevano trascurato le condizioni dei migranti, ora stanno correndo ai ripari. Sarà una lezione per l’Italia?



Svezia

La scelta della Svezia, di non fermare la vita sociale e le attività produttive, affidando la prevenzione al senso di responsabilità dei cittadini, ha suscitato alcuni timori in Italia. Ai critici ha risposto l'ambasciata.

Sono pochi gli obblighi imposti dalla Svezia: vietati il servizio in piedi al bar, le riunioni con più di cinquanta persone e le visite alle case di cura. Sono chiuse le scuole superiori e le università, ma non gli asili e le scuole primarie. I consigli sono però molto simili a quanto in altri paesi è obbligatorio: distanziamento sociale, invito a lavorare da casa, a evitare i mezzi pubblici e restare a casa se si ha il minimo sintomo influenzale. Viceversa è consigliata l’attività fisica all’aperto perché rafforza il sistema immunitario.
"Nessuno ha delle certezze – spiega il dottor Anders Tegnell, direttore dell’Agenzia di sanità pubblica svedese in un’intervista al Corriere della sera a chi gli contesta che i paesi vicini abbiano meno contagi e meno decessi - ma cercare di fermare l’epidemia potrebbe anche essere controproducente, perché una volta che riprende la catena di contagi, è possibile che la situazione diventi anche peggiore”. “Non sarei troppo sorpreso conclude - se finisse allo stesso modo per tutti, indipendentemente dalle misure che abbiamo adottato.”



Svizzera

La Svizzera, della quale poco si parla, ha adottato misure meno rigide di altri paesi pur avendo un alto numero di contagi. Le persone continuano ad andare al lavoro e possono passeggiare e fare attività fisica all’aperto.

I negozi sono chiusi, tranne quelli indispensabili, così come le scuole a eccezione degli asili. Sono vietati gli assembramenti con più di cinque persone e in ogni caso va mantenuta la distanza di almeno due metri. Solo il Canton Ticino, dove la situazione sanitaria è peggiore, ha imposto l’obbligo di non uscire agli over-65.
Il prossimo 27 aprile riapriranno molte attività: studi medici, centri commerciali, parrucchieri, centri massaggi, vivai; gli ospedali torneranno a curare i pazienti non coronavirus.
Dall'11 maggio, se il calo dei contagi si confermerà, è prevista in tutta la Svizzera la riapertura delle scuole dell'obbligo e dei negozi.
Con questa ripresa scaglionata delle attività il governo si prefigge due obiettivi: continuare a proteggere la salute della popolazione, specialmente delle persone particolarmente a rischio, e ridurre al minimo possibile i danni economici.
Nel quadro dell’allentamento scaglionato, tutti – aziende, impiegati, clienti – dovranno continuare a seguire le regole di igiene e di comportamento. Solo così si potrà ridurre il rischio di una ripresa della diffusione del nuovo coronavirus.


1 commento:

  1. Pare opinione diffusa che per ogni malattia siano importanti diagnosi precoce e terapia immediata. Se entra un virus in un corpo, diagnosi e terapia al più presto impediscono al virus di riprodursi, moltiplicarsi e diffondersi per tutto il corpo. Più si ritardano diagnosi e terapia, più il virus si riproduce, moltiplica e difonde nel corpo e diventa sempre più difficile combatterlo e guarire. Anche per il virus Corona si renderebbe quindi necessaria, al domicilio, una diagnosi precoce, una diagnosi al più presto, ai primi sintomi e poi terapie immediate con farmaci appropriati (pare contemporaneamente: eparina, plaquenil, azitromicina, ecc.?). Per questo si renderebbe necessario potenziare la medicina territoriale (Medici di Medicina Generale, ecc.), programma terapeutico nei computer dei Medici di Medicina Generale, corsi di aggiornamento per medici, la prevenzione e l'educazione sanitaria, ecc. Pare che studi di medici (cardiologi, ecc. autopsie, ecc.) stiano chiarendo che il virus corona non provochi problemi polmonari (polmoniti, ecc.), ma provochi problemi cardiovascolari (micro trombosi/ micro embolie diffuse prodotte dall'infiammazione) in conseguenza dei quali non arriva il sangue ai polmoni, ma anche può non arrivare il sangue al cervello o ad altri organi. Le pareti delle vene di persone anzianepossono avere difficoltà a resistere alle microtrombosi.
    Periodicamente ci sono epidemie, pandemie. Nel 1957/58 l'influenza asiatica ha colpito il 20% della popolazione mondiale ed è morto lo 0,4%. Qui da noi i malati venivano curati in casa dai medici condotti e dalle donne di casa che avevano una esperienza tramandata a voce da una generazione all'altra. Il virus corona ha deciso per tutti gli aspetti della nostra società (lavoro, economia, industria, commercio, agricoltura, artigianato, turismo,cultura, celebrazioni religiose, ecc.). La vita di tutta la società sospesa ... Sto cercando di rileggere il libro "Il prete e il medico fra religione, scienza e coscienza" di Georges Minois, ed. Dedalo 2016; un dettagliato indice di 4 pagine. cap. quinto: peste nera e sifilide(1348-1349), lo smarrimento dei medici, la peste offusca l'immagine del prete e del medico. cap. tredicesimo: la battaglia dell'inoculazione e della vaccinazione(XVIII-XIX sec); il vaiolo investe l'Europa nel XVIII sec;. l'inoculazione, un argomento volterriano (in malafede?) contro i parroci; il vaccino: idea diabolica o rimedio provvidenziale? cap. quindicesimo: il medico alla conquista del potere socio-culturale (XIX secolo).

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