5 settembre 2020

Le lezioni della pandemia

Negli ultimi mesi siamo stati sommersi da informazioni e dati, spesso scarsamente utili alla comprensione di quanto accade. Ho cercato di capire quale sia stata l'efficacia del lockdown generalizzato imposto al paese la scorsa primavera giungendo a risultati sconcertanti che hanno provocato un interessante dibattito.


Credo che da questa pandemia abbiamo imparato tutti qualcosa. Per esempio io ho imparato che l'infezione, che oggi fa strage in altre parti del mondo, potrebbe tornare anche da noi e che il modo migliore per combatterla è quello di minimizzare i rischi di contagio attraverso comportamenti responsabili. Uno dei miei interlocutori, di cui parlerò tra poco, ha detto, molto saggiamente “Non basta fare appello al senso di responsabilità dei cittadini, occorre anche che questi siano bene informati”. Il riferimento era alla Svezia, ma naturalmente vale per tutti.
Dal punto di vista di una corretta informazione non direi che siamo stati trattati molto bene: siamo stati bersagliati quotidianamente da numeri eterogenei forniti senza spiegazioni e senza contesto, ubriacati da tavole rotonde sul nulla (si può correre sino a 100 o 200 metri da casa?), coinvolti in assurde diatribe tra esperti e nei rimpalli di responsabilità tra i diversi organi dello stato, oggetto di pesanti campagne di persuasione, neanche tanto occulte, prima per stare tappati in casa, poi per riprendere le attività, quasi come se nulla fosse avvenuto.
Questo senza contare le notizie false (“fake news”) ampiamente circolanti in rete, cui l'amico professor Fieschi dedica una nota che trovate nel post “Pandemia e bufale”.

In queste condizioni ciascuno di noi ha dovuto impegnarsi per cercare di capire quello che nell'informazione disponibile al grande pubblico non era chiaro o addirittura non c'era.
Personalmente ho cercato di rispondere a una semplice domanda: quanto sono stati efficaci, relativamente all'obiettivo di ridurre la mortalità da coronavirus, i provvedimenti di arresto generalizzato delle attività economiche e sociali (“lockdown”) praticati da quasi tutti i governi, e in particolare dall'Italia?
A questo scopo ho preso in considerazione due soli parametri per una cinquantina di paesi: il tasso di mortalità da COVID 19 e un indice che misura la severità e la durata delle norme di contenimento (vedi il post “Lockdown: utile o dannoso?” per la metodologia adottata e per le fonti dei dati utilizzati). Ci aspetteremmo, se queste misure fossero efficaci, che la mortalità sia minore nei paesi con misure di contenimento più severe e diffuse, e viceversa.
Il risultato, inatteso e desolante, è stato opposto: non c'è assolutamente nessuna relazione tra severità delle misure e mortalità da coronavirus. Limitandoci ai paesi dell'Europa occidentale, cioè a paesi che presentano situazioni politiche, economiche, sociali e demografiche simili a quelle italiane (anche se non sempre hanno raccolto i dati in maniera omogenea), troviamo paesi che non hanno mai completamente fermato le attività con tassi di mortalità bassissimi (Finlandia: 6 decessi per centomila abitanti), e altri che hanno praticato politiche di contenimento molto severe e hanno avuto tassi di mortalità elevati (57 / 100.000 Italia e Spagna, 63 / 100.000 Gran Bretagna). Tra i paesi che hanno adottato politiche intermedie si va dai 2,3 / 100.000 della Grecia e 11,6 della Germania ai 36 / 100.000 dell'Olanda sino agli 84 del Belgio.
Esemplare il caso della Lombardia: è difficile capire come le stesse norme restrittive, applicate uniformemente in tutto il paese, abbiano portato a un indice di mortalità di 167 decessi da coronavirus per 100.000 abitanti in Lombardia (il più alto al mondo), e a un valore quasi cinque volte più piccolo (37 per 100.000 abitanti) nel resto del paese.
Prima di andare avanti vorrei sottolineare che questi dati, aggiornati al 24 agosto, non negano l'efficacia di misure di contenimento tese a impedire o rallentare la diffusione del virus, ma ci dicono chiaramente che provvedimenti indiscriminati non raggiungono gli effetti desiderati. A quanto pare risultati migliori si potrebbero ottenere con provvedimenti mirati, intervenendo tempestivamente per circoscrivere i singoli focolai (le cosiddette “zone rosse”) senza la necessità di paralizzare l'intero paese.

Molto interessante e istruttivo il dibattito che si è sviluppato attorno a questo post, grazie ai commenti, molto attenti e ben argomentati, di alcuni amici, che ringrazio per la loro partecipazione e perché con le loro osservazioni e integrazioni mi hanno aiutato a capire meglio alcune cose sul fenomeno coronavirus. E' delle loro risposte che ora vorrei parlare.

Per Maurizio Gusso servirebbero modelli di spiegazione multifattoriali e non mono- o bi-fattoriali. Immagino, per esempio, che l'intensità delle relazioni fra uno Stato (o una regione) e lo Stato (o la regione) del focolaio primario incida (e abbia inciso nel caso della Lombardia). Idem per il tasso di anziani con fragilità e forse anche per il tasso d'inquinamento. Un'altra variabile è anche quella della distanza temporale e della memoria storica rispetto all'ultima pandemia e al suo grado di incidenza locale (come nel caso della SARS e dell'aviaria). Altre due variabili fondamentali credo siano state le politiche sanitarie nazionali (o regionali), con particolare riferimento ai servizi medici decentrati/di prossimità e ai modelli di gestione delle RSA, per non parlare dei modelli di trattamento delle malattie contagiose e delle epidemie.
Difficile non essere d'accordo con Maurizio sulla necessità di un'analisi non semplicistica delle cause di diffusione del contagio e dell'efficacia delle diverse misure di contenimento. Personalmente ritengo che proprio la mancanza di questa valutazione degli effetti di diverse misure di prevenzione e contenimento, puntando tutto esclusivamente su una chiusure generalizzata, sia stata il peggior errore dei nostri governanti.
Non mancavano, sin da subito, esempi di comportamento virtuoso. Quando Maurizio cita, tra i fattori da considerare, la memoria storica dell'ultima pandemia, il pensiero corre ai paesi dell'Estremo Oriente, forse memori dell'Asiatica e di altre più recenti (e meno letali) epidemie, intervenuti immediatamente a isolare le aree dove il contagio si era manifestato.
Maurizio riflette poi sul pessimo risultato lombardo, ed elenca alcuni aspetti negativi della situazione della Lombardia e i maggiori ritardi, rispetto alle altre regioni, che hanno caratterizzato la gestione lombarda della pandemia:
a) i rapporti molto più stretti con la Cina;
b) l'ampiezza numerica e spaziale del primo focolaio (Codogno);
c) il modello di politica sanitaria della Regione Lombardia, ferocemente neoliberista e privatistico, privilegiante i grandi ospedali a scapito dei servizi territoriali;
d) il ritardo con cui si sono isolati i reparti Covid-19 rispetto agli altri, e la decisione scellerata e assurda di inviare gli ammalati Covid-19 non gravi nelle RSA;
e) i ritardi nella fornitura di mascherine, reagenti e altre attrezzature agli operatori sanitari e nell'effettuazione dei tamponi.

Nel suo intervento DBC sottolinea che le misure di lockdown non sono state proposte per mitigare la mortalità … ma per salvaguardare il più possibile la capacità del sistema sanitario di gestire i malati, evitando che vada immediatamente al collasso, e questo concetto è ripreso da Olga Basso, che cita anche uno studio secondo cui le città americane che nel 1918 hanno praticato il lockdown non solo ebbero meno morti, ma anche una migliore ripresa.
Sul punto Giancarlo Costadoni osserva che, se anche l'obiettivo ufficiale di queste misure è stato attenuare la velocità dell'innalzamento della curva di contagio per evitare che il sistema sanitario andasse al collasso, è praticamente la stessa cosa perché il collasso ha prodotto morti in quantità e del resto se stiamo parlando di questo coronavirus è soltanto perché ha causato centinaia di migliaia di morti. In mancanza di decessi, avrebbe preoccupato pochissimo.
DBC allarga poi il discorso a temi più generali, dall'efficacia del lockdown all'iniziale difficoltà di imporre pur blande misure di contenimento (L'amara verità è che in febbraio nessuno avrebbe accettato di comportarsi responsabilmente.... In Italia non c'era assolutamente alcuna disponibilità a prendere in considerazione la minima profilassi, dal portare le mascherine al limitare gli assembramenti, prima che cominciassero a sfilare le bare) e conclude con una serie di domande, tanto necessarie quanto di impossibile risposta: quali paesi hanno pagato i costi più alti, in termini di vite umane e dissesto socioeconomico e politico? Quelli governati da autocrazie totalitarie o da democrazie liberali? Quanto vale la nostra libertà? Quanto sono resilienti le nostre comunità? Quanto sono capaci di gestire la propria impreparazione i nostri governi?
Sul punto della forma di governo, democratica o autoritaria (io preferirei parlare di diversi gradi di autoritarismo), Olga non manca di farci notare, scherzosamente ma non troppo, che tutti i paesi governati da donne (dalla Germania alla Nuova Zelanda, dalla Danimarca e Norvegia a Taiwan) appartengono al gruppo dei paesi che hanno risposto meglio alla pandemia.

Giancarlo Costadoni, sempre molto attento e puntuale, mi rivolge alcune domande e alcune critiche. Cominciamo dalle domande: come abbiamo calcolato un indice di contenimento “medio” a partire dai dati quotidiani forniti dall'Università di Oxford? La risposta è che abbiamo proceduto nel modo più banale, facendo la media aritmetica dei valori giornalieri sull'intervallo, uguale per tutti i paesi, tra il 22 gennaio e il 24 agosto.
E' chiaro che i risultati saranno molto diversi a seconda della fase in cui si trovano i diversi paesi, e questo è uno dei motivi (non l'unico) per cui abbiamo limitato il confronto ai paesi europei, che si trovano più o meno tutti nella stessa fase di forte riduzione degli effetti dell'epidemia.
A questo proposito è particolarmente interessante questa pagina del New York Times che presenta graficamente le serie storiche degli eccessi di mortalità rispetto alle attese, per oltre venti paesi e alcune capitali: https://www.nytimes.com/interactive/2020/04/21/world/coronavirus-missing-deaths.html?

Quasi tutti i grafici presentano un picco seguito da una discesa che nella stragrande maggioranza dei paesi europei scende sino ai valori medi degli ultimi anni (mortalità senza Covid), mentre in alcuni, tra cui il Brasile e gli Stati Uniti, Mosca e Città del Messico, i tassi di mortalità, pur scesi rispetto al picco, rimangono superiori ai tassi pre-Covid. Infine alcuni paesi (Bolivia, Perù, Sud Africa) non hanno ancora raggiunto il picco, e l'eccesso di mortalità è in continua crescita.
Notiamo che mentre l'area compresa tra la curva dei decessi reali e quella dei decessi previsti fornisce una stima del numero di decessi per coronavirus (in genere superiore al valore “ufficiale”), la velocità di raggiungimento della curva dei decessi attesi è una buona misura dell'efficacia dei provvedimenti adottati.
Tornando al calcolo dell'indice è chiaro che questo sarà lo stesso per due paesi, l'uno con un mese di blocco totale (100%) e un mese di assoluta libertà (indice 0), l'altro con due mesi al 50%, mentre è probabile che gli effetti, nei due casi, siano molto diversi.
Malgrado tutti questi limiti ritengo questo indice sufficientemente rappresentativo della severità delle politiche attuate dai diversi paesi, e confermata quindi la conclusione che la “quantità” di provvedimenti di contenimento non ha nessun effetto sul risultato,  mentre potrebbero averne provvedimenti mirati.

Un'ultima precisazione a questo proposito. Giancarlo scrive: Nel misurare la correlazione tra i decessi e le restrizioni a livello internazionale, sarebbe necessario considerare tutti i paesi del mondo (o comunque il maggior numero possibile), invece nei due grafici sono stati esclusi i paesi latinoamericani (non ho capito se la Corea del Sud sia stata inserita o meno).
La Corea del Sud c'è, nel primo dei due grafici di giugno, ma mancano numerosissimi altri paesi, e questo perché ho cercato di mettere in pratica la lezione, imparata molti anni fa, proprio da Giancarlo, grande studioso del Terzo Mondo, che non si può confrontare il confinamento in un appartamento di Milano, o di Roma, o di Napoli, con il confinamento in uno slum di Calcutta o di Nairobi, o in una favela di Rio. Proprio per avere dimenticato questa lezione Singapore si è trovata con una ripresa dei contagi a partire dai quartieri dove vivono ammassati migliaia di lavoratori immigrati.
Giancarlo conclude (e mi trova del tutto d'accordo): … anche le crisi economiche causano decessi. A rigore, le politiche restrittive andrebbero valutate verificando, da una parte, le vite che sono riuscite a salvare dal coronavirus e, dall'altra, quelle perdute a causa degli effetti collaterali negativi sull'economia. Chi riuscirà a calcolarle?

Quanto a me, a conclusione di questa interessante rassegna di informazioni e di opinioni, mi pare di aver capito una cosa, ed è l'ambiguità del termine “lockdown”: può essere uno strumento efficace di contenimento del contagio se applicato a una famiglia, a un gruppo, a un'intera comunità. Ma assolutamente inefficace e controproducente se applicato all'intero paese.
I Veneziani, inventori della quarantena, mettevano in quarantena gli equipaggi delle navi ritenute infette, non l'intera città. Che viceversa è proprio quello che abbiamo fatto noi (e non so se lo avremmo fatto se la regione più colpita, anziché la grande e ricca Lombardia, fosse stata il Molise, o la Val d'Aosta, o la Basilicata?).

2 commenti:

  1. Caro Piero, io penso, al contrario di te, che sia stato necessario (e lo sia tuttora) ricorrere contemporaneamente sia alle zone rosse che al lockdown generalizzato. Ciò, ovviamente, da un punto di vista sanitario, perché da un punto di vista generale è impossibile non scendere a compromesso con l'economia, è impossibile che la politica di un paese democratico non faccia mediazione tra l'interesse prevalentemente sanitario dei più fragili fisicamente e l'interesse prevalentemente economico dei più resistenti a livello fisico. E' chiaro, però, che questo compromesso tra salute e economia protrae nel tempo la malattia e il numero dei morti.
    Il contemporaneo uso di zone rosse e di lockdown generale era necessario perché chiudere la stalla quando molti buoi erano già scappati (ossia, limitarsi alle zone rosse), non era più sufficiente: occorreva non solo riacciuffare i buoi (i contagiati usciti dalle zone rosse), ma soprattutto evitare che tutta la popolazione italiana entrasse in contatto con quei buoi che, ricordiamocelo, all'inizio nessuno sapeva chi erano, da dove venivano e dove andavano. L'esempio che tu fai del Lazzaretto di Venezia non è adeguato; in quel caso, infatti, Venezia sapeva benissimo e in anticipo, non a posteriori, chi erano i potenziali contagiati (gli equipaggi provenienti da regioni infette) e, di conseguenza, bastava isolare loro prima che circolassero tra i Veneziani. All'inizio della pandemia, invece, si scoprirono i primi focolai quando oramai molti infetti provenienti da quei focolai erano già in giro per l'Italia e per il mondo.
    Il fatto, infine, che regioni e nazioni che hanno adottato un lockdown severo non abbiano avuto perciò pochi contagi e decessi, non dimostra nulla circa l'eventuale inefficacia del lockdown generalizzato. Infatti, è sempre e ancora una questione di tempistiche: quando si è compresa la pericolosità della malattia, quando si sono identificati i primi focolai e quando si sono fatte le prime zone rosse (a parte il fatto che nella zona più infetta, Bergamo, non è stata imposta), oramai gli infetti circolavano da settimane; di conseguenza, un lockdown generalizzato adottato così in ritardo non poteva più avere grande efficacia nel breve periodo. E' innegabile, invece, che il lockdown generalizzato abbia avuto effetto sul lungo periodo: innanzitutto, come ricordi tu, il centro sud del paese si è infettato molto meno rispetto alle zone prossime ai primi focolai; ciò è accaduto proprio perché, quando ancora il virus circolava poco fuori dalle zone infettatesi più precocemente, si è impedito al resto del paese, mediante il lockdown, di venire in contatto con gli infetti che, sia pure in numero non eccessivo, già circolavano nel resto del paese. La seconda prova che sul lungo periodo il lockdown generalizzato ha avuto efficacia è l'innegabile caduta dei contagi con il passare del tempo (a fine giugno si era scesi sotto i 100 contagi al giorno) e il fatto che, al contrario, non appena è stato revocato il lockdown generalizzato, i contagi hanno ripreso a salire.
    Per concludere, limitarsi alle zone rosse e al tracciamento dei contatti degli infetti è possibile oggi, dato che identifichiamo meglio e immediatamente i focolai, non era possibile all'inizio della pandemia quando i focolai furono scoperti e isolati con molto ritardo.

    RispondiElimina
  2. Caro Sandro, sei riuscito a spiegare in modo chiaro e convincente quello che io non sono riuscito ad argomentare adeguatamente quando mettevo in dubbio la validità della correlazione tra misure di confinamento generalizzato e numero dei decessi. Hai inserito in modo egregio la variabile "tempistica" che illustra la bontà delle misure prese.

    RispondiElimina

Lascia qui un tuo commento