5 settembre 2020

Che ci faccio qui

 Aldo Silvani

Ho ricevuto una particolare riflessione da un amico attento ai mutamenti sociali, che ha voluto condividere il suo punto di vista sui cambiamenti che hanno trasformato Sesto san Giovanni, e che trovo offrano un interessante parallelismo con ciò che stiamo vivendo.

La trasmissione di Domenico Iannacone sui paesi, mostra bellissime immagini di villaggi e gruppi di case rurali, non progettati da archistar ma dai contadini stessi. Sono frutto di una cultura dove tutto viveva, forse, in armonia, dove tutte le componenti si integravano perfettamente. Il problema sorge quando questa unità viene meno. Mi riferisco all’abbandono dei paesi da parte di migranti al Nord dell’Italia o all’estero. All’abbandono a causa della denatalità, al terremoto che ha colpito il Sud. Mi riferisco soprattutto ai mutamenti economici e sociali e al prevalere di nuovi stili di vita. I paesi abbandonati non verranno più ripopolati. Situazioni simili a quelle attuali riguardanti le migrazioni in atto dal Sud del mondo.

Io sono nato 81 anni fa a Sesto San Giovanni e qui sono sempre vissuto. Sesto San Giovanni è una città dell’hinterland milanese. Qui avevano sede le più importanti aziende metalmeccaniche italiane: Breda, Falck, Marelli, Ercole Marelli, e una infinità di aziende più piccole che vivevano dell’indotto della grande industria. Una impressionante concentrazione industriale simile ad altre analoghe situazioni europee. E un impressionante e inestricabile intreccio tra il produrre e l’abitare. Sesto è passata nella prima metà del secolo scorso da borgo agricolo a città industriale, da 20/30.000 abitanti a quasi 100.000 abitanti in non più di 40 anni grazie all’immigrazione dal nord-Est e dal Sud dell’Italia. Non solo, ogni giorno scendevano da treni e da vecchie corriere decine di migliaia di lavoratori provenienti dai paesi vicini e dalle provincie di Bergamo e Brescia per farvi ritorno la sera o alla fine del turno di lavoro. Il lavoro come potente attrazione per intere popolazioni che fuggivano dalla povertà e dal sottosviluppo. Probabilmente anche quelle le cui case sono state così ben ristrutturate e che attendono un improbabile ritorno. I guasti di uno sviluppo disarmonico e non gestito politicamente. In un certo senso, in un contesto sociale ed economico diverso, si è verificata anche qui una armonizzazione tra le varie componenti del vivere sociale, dove le persone sono il risultato di un meticciato tra locali e immigrati, in un contesto industriale dove è entrata in modo determinante una nuova coscienza politica e sindacale. Si è creata una nuova unità fatta di integrazione e armonizzazione tra industria, l’abitare e la coscienza di diritti affermati e conquistati anche con lotte e conflitti che sicuramente hanno contribuito n modo determinante a definire una identità nuova. L’uomo nuovo non ha più sentito forse la necessità di un ritorno alle origini, oppure, se questa necessità l’ha sentita, ha preteso di portare il cambiamento anche nell’ambiente dal quale era partito.

Nella seconda metà del secolo scorso, in un periodo relativamente breve, non più di 20-30 anni, Sesto subisce un cambiamento radicale. Le mutate situazioni economiche e sociali, la globalizzazione e le nuove tecnologie, portano ad una rapida deindustrializzazione. Non una delle industrie storiche rimangono in piedi. L’incremento demografico si arresta, ma non si assiste ad un ritorno alle origini. L’immigrazione dal Sud si arresta e viene sostituita dai nuovi migranti provenienti da paesi lontani. Lo sviluppo economico non è più legato all’industria ma segue altre strade. Che cosa è rimasto di Sesto industriale? Poco o nulla. Siamo rimasti noi vecchi, ultimi testimoni con poco futuro. Le nuove generazioni, peraltro ridotte al lumicino dalla denatalità, vivono altre realtà. Solo una esigua minoranza è interessata a studiare i cambiamenti del sociale. La maggioranza, peraltro fenomeno diffuso in tutto il mondo, vive nel non ricordo, nell’oblio. Anche ciò che resta di visibile, i capannoni, le gru, il carroponte, i fabbricati industriali, si degradano e scompaiono rapidamente. Restano le case popolari un tempo abitate dai lavoratori, ora diventate abitazioni economiche per le categorie a basso reddito, ma non più, come una volta, nuclei abitativi dove si vivevano, nello stare insieme e anche nel privato, tutte le problematiche e le tensioni politiche e sindacali di quel tempo, una vita vera dove l’industria diventava anche nei conflitti luogo di maturazione sociale, culturale e politica. Ora i nuovi migranti portano problemi diversi e prefigurano una diversa cultura del lavoro e del vivere sociale. Ed è una fortuna che ci siano. Mi chiedo se l’evoluzione rapida della nostra società non sia in fondo simile all’evoluzione lenta di un tempo, della quale sono testimonianza le splendide vestigia del passato. 

Penso che il senso vero di tutto il racconto di Jannacone sia la frattura, l’allontanamento, il cambiamento, l’emigrazione senza rinunciare al come eravamo, ai valori ma anche alle criticità che ci hanno formato e che possono essere la base per un ritorno possibile, un ritorno di persone cambiate. Senza l’accettazione di questo cambiamento un ritorno vero non sarà, credo, possibile. Non a caso la casa di Iannacone si chiama “Casa Itaca”. Il ritorno sarà possibile perché Ulisse riuscirà a trovare alcuni importanti elementi di continuità, un cane, un vecchio, Penelope, il figlio. Troverà cioè gli affetti fondamentali sui quali tentare di costruire un futuro, dopo tante esperienze che lo hanno cambiato. Omero riporta Ulisse a Itaca ma non ci dice nulla su quello che succederà a Ulisse dopo il suo ritorno.


1 commento:

  1. ho letto con interesse. grazie a Aldo Silvani per averlo scritto. Contenuto che esprime una grande esperienza vissuta a Sesto s.g., denso di elementi su cui riflettere molto, approfondire molto. Fiorenza

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