22 giugno 2020

Lockdown: necessario? utile? dannoso?

Oggi nessuno più si nasconde i drammatici effetti negativi del lockdown: una crisi economica senza precedenti, un significativo aggravarsi delle disuguaglianze, un intero anno scolastico perduto.
Da un giorno all'altro milioni di persone hanno perso la possibilità di lavorare e di mangiare, mentre milioni di altri, pur momentaneamente protetti, rischiano domani di non trovare più la loro fonte di lavoro e di reddito. Anche noi pensionati, che al momento possiamo considerarci dei privilegiati, saremo chiamati a pagare i debiti contratti oggi (ci vuol altro che un'epidemia di coronavirus perché in Italia le tasse comincino a pagarle gli evasori!).


La lunga chiusura delle scuole non ha fatto che approfondire le distanze tra le generazioni future, tra chi ha potuto continuare a studiare grazie a strumenti telematici, e chi, nelle zone geograficamente e socialmente più deboli del paese, cioè proprio dove la scuola sarebbe più necessaria, non ha avuto questa possibilità.
A questo drammatico problema abbiamo dato la classica risposta all'italiana: bonus baby-sitter e tutti promossi.
Non meno gravi, a mio avviso, le altre conseguenze del lungo periodo di chiusura: il diffuso sentimento di paura e di sospetto verso l'altro, l'adesione acritica a tutte le misure imposte dall'alto o, viceversa, un ribellismo altrettanto acritico e al limite autolesionistico. Siamo così passati dal “come è bello stare in casa”, ampiamente pubblicizzato da personaggi tutti provvisti di una casa confortevole, all'odierno “riappropriamoci delle piccole cose che ci sono mancate”.

Naturalmente tutti questi pesanti effetti delle restrizioni imposte, facilmente prevedibili, erano il prezzo da pagare per salvarci da un male peggiore: un'ecatombe da coronavirus ben più grave di quella che abbiamo comunque subito. E non dubito che proprio il timore di più gravi conseguenze abbia indotto i nostri governanti ad adottare le severe misure di contenimento, ancora parzialmente in vigore, che abbiamo conosciuto.
A oltre tre mesi dall'inizio del lockdown mi sembra sia ormai doveroso chiederci se questi provvedimenti sono stati efficaci, se cioè hanno contribuito, e in che misura, a risparmiarci altri malati e altre morti.
Ovviamente nessuno può sapere cosa sarebbe accaduto se non fossero stati adottati, ma la risposta che viene suggerita da un confronto di quanto è accaduto in oltre quaranta paesi è un “no” secco: l'adozione di misure più o meno severe di contenimento non ha minimamente influito sui tassi di mortalità.
Per convincersene è sufficiente dare un rapido sguardo ai due grafici che seguono. In entrambi l'asse orizzontale rappresenta un indice sintetico dei provvedimenti restrittivi adottati da ogni paese (da 0, nessuna restrizione, a 100, tutto fermo per tre mesi), mentre sull'asse verticale sono riportati i tassi di mortalità. È facile vedere che non c'è nessuna correlazione tra politiche restrittive e mortalità.
Esemplare il caso del nostro paese: siamo, tra i grandi paesi europei, quello che ha applicato le norme di contenimento più severe, e siamo tra quelli con i tassi di mortalità più elevati, e francamente mi è difficile capire come le stesse norme restrittive, applicate uniformemente in tutto il paese, abbiano portato a un indice di mortalità di 163 decessi per 100.000 abitanti in Lombardia (il più alto al mondo), e a un valore cinque volte più piccolo (35 per 100.000 abitanti) nel resto del paese [1].

Forse sono altre le strategie di contenimento che avrebbero potuto essere messe in campo con migliori risultati. Forse valeva la pena di concentrare l'attenzione sulle diverse pratiche e uniformarsi a quelle dimostratesi più efficaci, anziché inseguire Salvini e Meloni che reclamavano l'esercito nelle strade.
Al momento (le cose possono cambiare nelle prossime settimane e mesi) il nostro paese ha un tasso di mortalità più alto di quello della Svezia, che non ha mai chiuso le scuole per l'infanzia né ha mai completamente arrestato la vita economica e sociale e per questo è stata spesso criticata e giudicata “irresponsabile” dai nostri media, ma la cui vera colpa, forse, è quella di aver fatto appello al senso di responsabilità dei cittadini, anziché dare ordini ai propri sudditi, come usa da noi.

I numeri
Ormai tutti hanno capito che i dati ufficiali sui decessi da coronavirus sono largamente sottostimati, in quanto considerano solo i casi verificati col tampone, esame che viene effettuato sui deceduti in ospedale, ma difficilmente su chi muore nella propria abitazione o nelle case di riposo (l'analisi dei decessi nelle case di riposo condotta dall'Istituto superiore di sanità e aggiornata al 14 aprile, https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/pdf/sars-cov-2-survey-rsa-rapporto-3.pdf, concludeva che il numero di decessi attribuibili a coronavirus era sette volte superiore a quello dei decessi ufficialmente riconosciuti).
Una valutazione più realistica delle morti direttamente o indirettamente attribuibili al coronavirus si ottiene considerando l'eccesso di mortalità nell'anno in corso rispetto alla mortalità media nello stesso periodo negli anni 2015-19. Uno studio dell'INPS aggiornato al 20 maggio (https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemDir=53705) mostra che nel bimestre gennaio-febbraio i decessi sono stati inferiori alla media dei cinque anni precedenti, grazie anche a un'epidemia influenzale particolarmente mite, mentre nel bimestre marzo-aprile si sono registrate 46.909 morti in più rispetto alle attese (un aumento del 43%), quasi tutte concentrate nelle regioni settentrionali e nelle classi di età dai 70 anni in su. Nello stesso periodo di tempo i decessi ufficialmente attribuiti al coronavirus sono stati 27.938, poco più della metà.
Un'indagine condotta dal New York Times nel mese di aprile e continuamente aggiornata (https://www.nytimes.com/interactive/2020/04/21/world/coronavirus-missing-deaths.html?action=click&module=RelatedLinks&pgtype=Article) mostra che il fenomeno è generale: in ben 21 paesi dei 26 esaminati l'eccesso di mortalità registrato nel 2020 è nettamente superiore al numero delle morti ufficialmente attribuite al coronavirus. (Dei cinque paesi in cui il numero di morti attribuiti alla pandemia spiega interamente l'aumento della mortalità, quattro hanno tassi di mortalità molto bassi, e solo il Belgio ha un tasso di mortalità molto elevato, secondo solo a quello della Lombardia; è plausibile ritenere che questo poco invidiabile primato sia in parte da attribuire alla più corretta analisi delle cause di morte).



In conclusione, pur sapendo che si tratta in generale di dati sottostimati (con l'eccezione appena ricordata del Belgio), ritengo che i dati della John Hopkins University (https://gisanddata.maps.arcgis.com/apps/opsdashboard/index.html#/bda7594740fd40299423467b48e9ecf6), aggiornati con continuità in base ai dati ufficiali dei singoli paesi, siano pienamente utilizzabili per consentire dei confronti tra paesi.

Ovviamente più difficile la definizione di un indice unico delle politiche di contenimento messe in atto dai vari paesi. L'Oxford COVID-19 Government Response Tracker calcola quotidianamente, per oltre 160 paesi, un indice di severità (“stringency index”) variabile tra 0 e 100 che tiene conto delle chiusure di scuole, di luoghi di lavoro, di linee di trasporto, di limitazioni agli spostamenti, di chiusure delle frontiere, di cancellazioni di eventi pubblici. Da questi dati giornalieri, disponibili in forma grafica in https://ourworldindata.org/grapher/covid-stringency-index?tab=chart&country=ITA&region=Europe, abbiamo ricavato un indice complessivo unico, facendone la media su tutto il periodo considerato.

Due le possibili fonti di errore: da una parte abbiamo calcolato le medie basandoci sulle rappresentazioni grafiche, quindi con possibili errori di arrotondamento, comunque non superiori a pochi punti percentuali.
D'altra parte sappiamo che il virus ha aggredito i diversi paesi in momenti diversi: prima l'Estremo Oriente, poi l'Italia e l'Europa, più recentemente le Americhe e oggi l'Africa. Per questo motivo nell'elaborazione del grafico 1 abbiamo considerato i maggiori paesi OCSE (più la Cina) escludendo i paesi dell'America latina. Il grafico 2 considera un gruppo di paesi ancora più omogeneo, solo Europa occidentale (i dati utilizzati sono riportati in tabella). Tutti i dati utilizzati sono quelli disponibili al 15 giugno.

In entrambi i casi è evidente, come avevamo anticipato,  che non c'è nessuna correlazione tra la severità delle norme e il tasso di mortalità.

Indice  di severità (in percento) e tasso di mortalità (numero di decessi per centomila abttanti) per i principali paesi dell'Europa occidentale

Paese
Chiusura
Mortalità
Svezia
31
47,9
Finlandia
41
5,8
Germania
45
11
Norvegia
47
4,4
Gran Bretagna
49
63,5
Lussemburgo
51
17,5
Svizzera
52
23,1
Danimarca
53
10,2
Austria
54
7,6
Belgio
54
82,4
Portogallo
54
14,7
Spagna
58
54,2
Francia
59
43,4
Grecia
59
1,7
Irlanda
60
33
Olanda
60
35,2
Italia
63
56,8
Italia senza Lombardia
63
35,5
Lombardia
63
163,3


[1] “Senza respiro” è un progetto di ricerca indipendente diretto da Vittorio Agnoletto per documentare quello che non ha funzionato in Lombardia, in Italia e in Europa e scoprire che cosa ci insegna l’epidemia.
Potete sostenere l'iniziativa con una donazione o pre-acquistando il volume: https://altreconomia.it/senza-respiro/

7 commenti:

  1. Grazie, Piero.
    Non essendo uno specialista, provo a contribuire esplicitando qualche dubbio rispetto al modo di elaborare i dati e alle ipotesi interpretative.
    1. Servirebbero modelli di spiegazione multifattoriali e non mono- o bi-fattoriali. Immagino, per esempio, che l'intensità delle relazioni fra uno Stato (o una regione) e lo Stato (o la regione) del focolaio primario incida (e abbia inciso nel caso della Lombardia). Idem per il tasso di anziani con fragilità e forse anche per il tasso d'inquinamento. Un'altra variabile è anche quella della distanza temporale e della memoria storica rispetto all'ultima pandemia e al suo grado di incidenza locale (come nel caso della SARS e dell'aviaria). Altre due variabili fondamentali credo siano state le politiche sanitarie nazionali (o regionali), con particolare riferimento ai servizi medici decentrati/di prossimità e ai modelli di gestione delle RSA, per non parlare dei modelli di trattamento delle malattie contagiose e delle epidemie. Certo, non tutte queste variabili sono altrettanto semplici da tradurre in dati quantitativi (resto convinto del fatto che ci serva un approccio qualiquantitativo e non esclusivamente quantitativo, ma va bene partire dall'approccio quantitativo, purché lo si relativizzi e contestualizzi un po' di più).
    2. Nel caso specifico della Lombardia, l'impressione è che sullo spropositato tasso di mortalità abbiano inciso più fattori:
    a) i rapporti molto più stretti con la Cina (se non addirittura con Wuhan) della Lombardia (e in particolare di Codogno e della Val Seriana) rispetto ad altre regioni italiane.
    b) l'ampiezza numerica e spaziale del primo focolaio (molto meno ampio a Vò Euganeo che a Codogno);
    c) il modello (molto più delirante di quelli di altre Regioni italiane) di politica sanitaria della Regione Lombardia (adottato dai tempi di Formigoni), ferocemente neoliberista e privatistico, privilegiante i grandi ospedali a scapito dei servizi medici territoriali/di prossimità;
    d) il ritardo (per esempio, rispetto al Veneto e all'Emilia-Romagna) con cui si sono isolati i reparti Covid-19 rispetto agli altri, per non parlare della decisione scellerata e assurda di inviare gli ammalati Covid-19 non gravi nelle RSA;
    e) i ritardi (rispetto, per esempio, a Veneto, Toscana, Emilia-Romagna) nella fornitura di mascherine, reagenti e altre attrezzature agli operatori sanitari e nell'effettuazione dei tamponi (per non parlare delle RSA e dei single e dei nuclei familiari rinchiusi in casa senza alcuna assistenza sanitaria).
    4. Per quanto riguarda gli effetti sanitari del lockdown, ho l'impressione che il lockdown tempestivo (e i tamponi a tutto spiano) di Vò (insieme alla creazione di reparti specifici COVID-19) abbia contribuito a evitare una mortalità maggiore e una maggiore diffusione dei contagi oltre l'area di Vò. Qualcosa del genere (con qualche ritardo rispetto ai reparti COVID-19 e ai tamponi) è successo anche a Codogno, ma non nella Val Seriana e a Bergamo (anche per le pressioni specifiche degli imprenditori locali), ma non nel Regno Unito, negli USA e in Brasile. Ho l'impressione che il lockdown italiano abbia quanto meno ritardato o ridotto la diffusione dei focolai nel Sud e nelle isole (dove i primi casi, se non ricordo male, erano d'importazione bergamasca e/o codognese).
    5. Per quanto riguarda la Svezia, servirebbe un'analisi più dettagliata, che non so fare. Empiricamente spicca il tasso di mortalità molto più alto di quello degli altri paesi scandinavi. Il dubbio è che il governo svedese abbia sottovalutato il grado di aggressività del COVID-19, favorendo tale sottovalutazione anche da parte della cittadinanza, e, quindi, una mortalità maggiore. Il problema è molto complesso perché non si tratta solo di affidarsi al senso civico dei cittadini, per rispettare le loro libertà, ma di fare affidamento sul grado di informazione scientifica sul COVID-19 (probabilmente molto più elevato negli specialisti che non nel cittadino non specialista)...
    Grazie per l’attenzione. Maurizio

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    1. Caro Maurizio,
      ti ringazio per la tua attenzione e il tuo ampio commento. Che dire? "A pelle" sento di essere d'accordo con molte delle cose che scrivi, anche se forse non con tutte, e certamente con una, fondamentale: è assolutamnte necessaria un'analisi che tenga conto di tutte le possibili variabili (tutte quelle che elenchi tu e magari anche altre) per capire quali combinazioni di fattori portino ai migliori risultati. Il non averlo fatto, puntando tutto su una chiusura generalizzata (o quasi), è, secondo me, il peggiore errore dei nostri governanti. E anche certi "esperti" che andavano in televisione a discettare di aria fritta non hanno reso un gran servizio alla scienza.
      Mi auguro che abbiano tutti imparato la lezione, e che nel malaugurato caso di una recrudescenza del contagio questo venga affrontato con misure più efficaci.

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  2. Caro Piero,
    grazie per lo sforzo analitico e la prospettiva critica, indispensabile per i tempi che stiamo vivendo, ma rilevo alcuni problemi nell'interpretazione proposta: le misure di lockdown non sono state proposte per mitigare la mortalità (su cui impattano troppi fattori diversi e specifici per ciascun contesto), bensì la rapidità dell'innalzamento della curva di contagio. Lo scopo è quello di salvaguardare il più possibile la capacità del sistema sanitario di gestire i malati, evitando che vada immediatamente al collasso. Da questo punto di vista, l'Italia non paga il lockdown in sé e per sé, ma piuttosto il ritardo nella sua imposizione: quelle maledette due settimane (dove in Lombardia si voleva evitare il lockdown a tutti i costi, ricordate?) dal 21 febbraio all'8 di marzo. E poi mettiamoci pure tutto il resto. Per capire l'importanza e l'efficacia dei lockdown nell'appiattire la curva epidemica è sufficiente confrontare la curva dei contagi in UE e in USA. Nel complesso ritengo invece che un lockdown tempestivo e coerente, con indicazioni chiare e una massiccia e responsabile adesione a un codice di comportamento condiviso della popolazione, sia stato estremamente efficace nel scongiurare il totale collasso del sistema sanitario in molti paesi (compreso il nostro: provate a immaginare i numeri della Lombardia in Basilicata, e fatevi due conti), a partire proprio dalla Cina. Questo non significa cedere alla normalità dello stato d'eccezione per sempre, significa tenere i piedi ben piantati per terra. L'amara verità è che in febbraio nessuno avrebbe accettato di comportarsi responsabilmente. Io ho seguito con grande attenzione il dipanarsi degli eventi fin da gennaio, avendo molti miei studenti in Cina: in Italia non c'era assolutamente alcuna disponibilità a prendere in considerazione la minima profilassi, dal portare le mascherine, al limitare gli assembramenti, prima che non cominciassero a sfilare le bare. Volete la riprova: tenete d'occhio il Brasile, un paese che non sta adottando alcuna misura restrittiva. E riparliamone a dicembre. Poi potremo cominciare ad affrontare il dibattito vero, quello cruciale: quali paesi hanno pagato i costi più alti, in termini di vite umane e dissesto socioeconomico e politico? Quelli governati da autocrazie totalitarie o da democrazie liberali? Quanto vale la nostra libertà? Quanto sono resilienti le nostre comunità? Quanto sono capaci di gestire la propria impreparazione i nostri governi?

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  3. Grazie per questo tuo commento che certamente aiuta me, e spero anche altri, a capire meglio la complessità della situazione.
    Sulla stessa linea mi pare si collochi il commento che mia nipote Olga Basso mi invia dal Canada e che riproduco di seguito:

    Che i lockdown abbiano costi pesantissimi (economici, di salute, e piu’) e’ innegabile – ma, in una situazione come questa, le scelte sono poche e insoddisfacenti. La principale funzione dei lockdown e’ di rallentare i contagi, consentendo agli ospedali di non essere sopraffatti e di ridurre il numero di persone che non puo’ ricevere cure mentre l’epidemia si diffonde. Se fatto a epidemia gia’ molto avanzata, e’ meno efficace (soprattutto se e’ gia’ arrivata in ospedali e case di cura).

    La Lombardia ha avuto un epidemia molto pesante ed è stata gestita male (comprensibile all'inizio, molto meno dopo). Da quello che ho capito seguendo dal Canada, in alcune zone non hanno mai chiuso le fabbriche, che spesso non consentono distanziamento, il che ha diffuso il virus fra i lavoratori e le loro famiglie. In piu’, gli ospedali sono stati un potente veicolo di trasmissione. Chiusure complete, come Codogno e Vo', hanno essenzialmente azzerato i contagi.

    In Svezia, hanno migliore capacita’ ospedaliera molta più gente che in Italia vive da sola, e raramente gli anziani vivono con i più giovani. In più, sono per loro natura più inclini al distanziamento sociale degli italiani (e anche loro hanno avuto problemi con le loro RSA).

    Molti esperti pensano che i lockdown funzionino (sono usciti di recente due articoli su Nature che sostengono che i lockdown abbiano prevenuto milioni di casi), ma puoi trovarne vari che dicono di no (dipende anche da come è fatto, quando viene istituito, e a che punto dell'epidemia).

    Negli USA, molti stati hanno evitato un lockdown all'europea, e non stanno andando bene.
    https://thehill.com/policy/healthcare/503946-us-covid-19-cases-rise-marking-ugly-contrast-with-europe
    Anche il Brasile, che ha minimizzato il covid, come ha fatto Trump, sta andando malissimo.

    Peraltro, anche l'economia svedese ha sofferto parecchio (meno del resto d'Europa, e non in tutti i settori), nonostante il lockdown limitato. La Germania, dove la gestione è stata molto migliore della nostra, dopo la riapertura sta avendo nuovi outbreak. La Nuova Zelanda è stata eccellente, e ha chiuso presto e tutto.
    https://www.newscientist.com/article/2246858-why-new-zealand-decided-to-go-for-full-elimination-of-the-coronavirus/

    Alcune analisi suggeriscono che nel 1918, negli USA, le citta’ che istituirono un lockdown non solo ebbero meno morti, ma anche una migliore ripresa. Questo e’ un’articilo che ne parla (pero’, visto che c’e’ una divisione ideologico-politica rispetto ai lockdown, soprattutto negli Stati Uniti, sono sicura che si possono trovare articoli contrari in giornali meno liberal).
    https://www.nytimes.com/interactive/2020/04/03/upshot/coronavirus-cities-social-distancing-better-employment.html

    Il lockdown e’senz’altro un “blunt instrument”. Ma, di fronte a una malattia nuova, estremamente infettiva prima che si sviluppino sintomi, e che puo’ causare danni devastanti e morte in molte persone, e’ l’unico che abbiamo.

    Infine, Olga non manca di farmi notare che tutti i paesi governati da donne (dalla Germania alla Nuova Zelanda, dalla Danimarce e Norvegia a Taiwan)appartengono al gruppo dei paesi che hanno risposto meglio alla pandemia.

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  4. Ritengo che sia doveroso, come sostiene Piero, chiederci se le misure di confinamento in cella (questo il significato della parola lockdown, dove per "cella" non ci si riferisce alla prigione ma al convento) prese dai vari governi siano state efficaci e ottenere una risposta a questo quesito.
    Piero misura l'efficacia in base al contributo dato dalle misure restrittive alla riduzione del numero delle persone malate e delle persone morte. Mi sembra un indicatore ragionevole, indipendentemente dall'obiettivo che le misure si proponevano. Infatti, anche se l'obiettivo ufficiale di queste misure è stato attenuare la velocità dell'innalzamento della curva di contagio (cioè delle persone malate) per evitare che il sistema sanitario andasse al collasso (cioè non potesse dare più le cure richieste), è praticamente la stessa cosa perché il collasso ha prodotto morti in quantità e del resto se stiamo parlando di questo coronavirus è soltanto perché ha causato centinaia di migliaia di morti. In mancanza di decessi, avrebbe preoccupato pochissimo.
    Detto quindi che l'attenzione alla mortalità è sacrosanta, non mi sembra che l'indicatore azzeccato sia la correlazione tra politiche restrittive e tassi di mortalità. E il motivo non è che si tratta di un fattore soltanto. Premesso che naturalmente Maurizio Gusso ha ragione nel dire che sarebbe preferibile prendere in considerazione più fattori - e su ciò Piero concorda con lui - anche l'uso di una sola variabile può essere utile, a condizione che l'ipotesi di fondo sia confermata dai dati.
    Ma la correlazione tra politiche restrittive - come si è proceduto per calcolare la media dell'indice di severità nel periodo considerato? - e tasso di mortalità mi lascia molto perplesso. Le politiche restrittive per essere paragonate dovrebbero partire più o meno nello stesso stadio di sviluppo dell'epidemia, il che è molto distante dalla realtà. Noi siamo legati al modello "c'è una politica restrittiva, vediamo come inciderà sulla mortalità" (ma in questo caso più che la mortalità in assoluto ci dovrebbe interessare il differenziale di mortalità registrato a causa della restrizione). Ma nella realtà il modello più verificatosi è stato "c'è un'elevata e crescente mortalità, istituiamo allora misure restrittive", dove la causalità sembra a prima vista rovesciata. Del resto, è lo stesso documento dell'Università di Oxford, citato da Piero, a sottolineare come lo studio effettuato non misura l'efficacia delle misure prese.
    Nessuno può sapere, dice Piero, che cosa sarebbe accaduto se non fossero state adottate misure restrittive. A rigore è così. Ma allora perché gli epidemiologi hanno continuato ad affermare che le misure effettuate hanno salvato - e lo dicono con tanto di cifre - molte vite umane? E viceversa, rivolgendosi a paesi come gli Usa e il Brasile, che il loro lassismo provocherà numerose morti? Sono tutti nel torto? La tradizionale risposta dell'umanità alle epidemie è priva di qualsiasi razionalità?
    Sul perché in Lombardia ci siano stati decessi circa il quintuplo che nel resto del paese, mi verrebbe spontaneo rispondere come fece qualcuno cui era stato chiesto perché nel 2009 ci furono tutti quei morti all'Aquila e non a Bologna: "perché il terremoto avvenne all'Aquila". In realtà ha risposto in modo esauriente alla domanda Maurizio. Nella correlazione tra decessi e misure di restrizione sono penalizzati i paesi che hanno un'elevata vita media (o una percentuale elevata di anziani), un'elevata densità demografica, scarsi servizi medici sul territorio. (continua)

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  5. Parte di questo dibattito si è già svolto su questo blog (si vedano i numeri di due mesi fa). La fuorviante contrapposizione tra fare appello al senso di responsabilità della cittadinanza (Svezia) e dare ordini ai propri sudditi (Italia) - si noti la terminologia non obiettiva - era già stata affrontata, criticata senza ricevere controcritiche. Maurizio e Olga Basso hanno aggiunto argomentazioni. Peraltro la decantata organizzazione sanitaria svedese è peggiorata negli ultimi tempi, tanto che è arrivata ad avere il minimo numero di posti per abitante per terapia d'emergenza dell'intera Unione europea.
    Nel misurare la correlazione tra i decessi e le restrizioni a livello internazionale, sarebbe necessario considerare tutti i paesi del mondo (o comunque il maggior numero possibile), invece nei due grafici sono stati esclusi i paesi latinoamericani (non ho capito se la Corea del Sud sia stata inserita o meno).
    In ogni caso, prendendo per buoni gli ottimi dati della Johns Hopkins University, l'indicatore a mio avviso che risponderebbe meglio alla domanda "chi è stato più efficace nel limitare i decessi" è la curva nel tempo dei decessi, soprattutto nella visualizzazione della scala logaritmica, che smussa gli incrementi dei paesi con maggior numero di casi. Prima la curva epidemica si appiattisce, prima il paese in questione si rivela capace di tenere sotto controllo la situazione. Stati uniti, Brasile, India, Russia, Gran Bretagna sono stati meno efficaci dell'Italia, ma nessuno è stato bravo come la Corea del sud e, in subordine, la Cina.
    Non dobbiamo nasconderci - e Piero è il più attento a sottolinearlo - che anche le crisi economiche causano decessi. A rigore, le politiche restrittive andrebbero valutate verificando, da una parte, le vite che sono riuscite a salvare dal coronavirus e, dall'altra, quelle perdute a causa degli effetti collaterali negativi sull'economia. Chi riuscirà a calcolarle?

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  6. Piero grazie del grande lavoro di analisi e argomentazioni. Appena letto l'ho condiviso. poi ho letto gli interessanti 6 commenti supportati da considerazioni altrettanto condivisibili. Mi avete insegnato molto.Speriamo che la classe dirigente addetta ai lavori impari e ne faccia tesoro. Fiorenza Mauri

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