8 gennaio 2020

Schiavitù: la vera origine della potenza americana



Elena Basso

Contrariamene a un  mito ampiamente diffuso l'origine prima della ricchezza e della potenza americane non sta nel coraggio e nello spirito di sacrificio dei pionieri che portarono la civiltà in terre selvagge, o nello spirito di intraprendenza dei suoi grandi capitani d'industria, ma nell'accumulazione consentita dal lavoro quasi gratuito degli schiavi. Se l'importanza di questo contributo era noto già da tempo agli studiosi, la vera notizia  è che il tema sia stato affrontato dal magazine del New York Times.




“Gli ideali fondatori della nostra democrazia erano falsi quando furono scritti. I neri americani hanno combattuto per renderli veri”, scrive Nikole Hanna-Jones, ideatrice del “Progetto 1619”, che prende il nome dalla data in cui i primi schiavi dell'Africa occidentale arrivarono sulle coste della Virginia.

Per il 400° anniversario di questo sbarco il New York Magazine, su proposta della sua giornalista Nikole Hanna-Jones, ha pubblicato The 1619 project, un progetto che ripercorre la storia della schiavitù negli Stati Uniti, facendo risalire la data di fondazione degli Stati Uniti proprio a quel primo sbarco.
Al progetto hanno collaborato accademici, giornalisti, poeti e scrittori quasi tutti neri, una scelta ritenuta essenziale per raccontare questa storia. La pubblicazione ha provocato diverse critiche, alcune scontate, altre più puntuali, ma in ogni caso ha avuto un effetto dirompente, in considerazione anche dell’autorevolezza della fonte. Molte le risposte dei lettori, che hanno riesumato documenti e fotografie dei loro antenati, che vanno a comporre un puzzle assai diverso dall’immaginario americano, una storia ancora oggi separata.
Enrico Deaglio, nel suo articolo “L’America? Chiamatela schiavocrazia” pubblicato da Repubblica lo scorso agosto, ricorda che nella Dichiarazione di indipendenza del 1776 gli schiavi africani, pur essendo allora un quinto della popolazione, non sono nemmeno nominati e che dei primi dodici presidenti dieci erano proprietari di schiavi.
Matthew Desmond, autore di uno degli studi del progetto, afferma che la brutalità del sistema capitalistico americano affonda le sue radici nelle piantagioni di cotone, dove “la schiavitù era innegabilmente una fonte di ricchezza fenomenale. Alla vigilia della guerra civile, la valle del Mississippi ospitava più milionari che qualsiasi altra parte degli Stati Uniti. Il cotone coltivato e raccolto dai lavoratori schiavi era l'esportazione più preziosa della nazione. Il valore combinato delle persone schiavizzate superava quello di tutte le ferrovie e le fabbriche della nazione”. Diversamente da quanto si crede, l’organizzazione era molto avanzata, con sistemi di tenuta dei registri molto precisi che monitoravano la produttività del singolo lavoratore, sviluppando metodi per aumentarla (dal 1801 al 1862 la produttività aumentò del 400%), che possono essere considerati a pieno titolo gli antesignani dei moderni sistemi gestionali e di controllo.
Per Desmond non è quindi un caso che fra i paesi OCSE gli Stati Uniti siano fra quelli con gli indicatori peggiori – ad esempio sulle regole per il lavoro temporaneo e per i licenziamenti - , la schiavitù è ancora nel loro DNA.
Il progetto, che inizialmente prevedeva la pubblicazione di un numero speciale della rivista, è stato rapidamente trasformato in un progetto più completo, con episodi audio-video trasmessi in podcast. Centinaia di migliaia di copie extra del numero della rivista sono state stampate per la diffusione a scuole, musei e biblioteche.
https://www.nytimes.com/interactive/2019/08/14/magazine/1619-america-slavery.html