6 giugno 2011

Labirinti per le scorie nucleari

Sue Landau 

La Francia ha migliaia di metri cubi di scorie radioattive per le quali cerca un metodo di stoccaggio permanente, un compito improbo che richiede anni di sperimentazione



Raggiungibile solo per stradine che attraversano pittoreschi villaggi, in un luogo così lontano da tutto che sino a dieci anni fa, quando cominciarono i lavori, il vicino villaggio di Bure, in Lorena, non era neppure connesso alla rete elettrica, a cinquecento metri di profondità sotto campi di colza e di grano, sta sorgendo un laboratorio dell’Andra, l’agenzia nazionale per la gestione delle scorie radioattive, per la ricerca di una soluzione definitiva al problema delle scorie [in francese “déchets”, da cui l’acronimo].
Il laboratorio, insieme ad altri in Finlandia e Svezia, rientra in un piano europeo, che dovrà essere approvato dal Parlamento in giugno, per la ricerca di depositi sicuri per il combustibile nucleare esaurito. 
La Francia, che possiede il secondo parco nucleare al mondo (dopo gli Stati Uniti) processa il combustibile esaurito, estraendone plutonio e uranio impoverito [entrambi, come è noto, di uso militare], e il residuo, un cocktail di elementi radioattivi alcuni dei quali attivi per centinaia di migliaia di anni, viene chiuso ermeticamente e immagazzinato in depositi temporanei per 50 o 100 anni. Ad oggi la Francia ha prodotto circa 90.000 metri cubi di combustibile spento, divenuti, dopo il processamento, 15.000 m³ di scorie. E’ per queste scorie che il laboratorio di Bure sta cercando una modalità di stoccaggio permanente.
Il compito è tutt’altro che facile, e la sperimentazione richiede anni: mentre gli operai scavano gallerie su gallerie nelle viscere della terra gli scienziati stanno sperimentando l’effetto del calore sulle rocce circostanti, la resistenza dei metalli usati per i contenitori alla corrosione; anche un effetto minimo, continuato per migliaia e migliaia di anni, è pericoloso. Il laboratorio e le gallerie sono scavati in uno strato di roccia sedimentaria del periodo giurassico, scelta per il suo bassissimo contenuto d’acqua, solo il 15%. “L’acqua, spiega il direttore del laboratorio, è il nemico. L’acqua si muove e potrebbe contaminare le acque di superficie. Ma un 15% di acqua è praticamente zero”. Un’altra importante caratteristica del materiale roccioso è che è estremamente compatto e quasi privo di fissurazioni attraverso le quali alcune radiazioni potrebbero raggiungere la superficie.
Nel sito, una volta entrato in funzione attorno al 2025, le scorie radioattive, già “raffreddate” per 40 o 50 anni, verrebbero sigillate in contenitori metallici, murati con una speciale argilla che trattiene l’acqua ed è ricca di ioni negativi, in grado cioè di intrappolare eventuali particelle radioattive sfuggite all’involucro, in generale positive, e inseriti in fori allineati lungo le gallerie. La radioattività verrebbe monitorata per almeno cento anni, e successivamente i singoli cunicoli e le gallerie verrebbero chiusi. Si prevede che i contenitori metallici possano disintegrarsi entro quattromila anni, ma la roccia dovrebbe garantire la piena sicurezza per almeno altri centomila anni (un tempo più lungo dalla prima apparizione sulla terra dell’Homo sapiens), quando la radioattività residua non costituirà più nessun pericolo.
Naturalmente non mancano gli scettici: per quanto approfonditi siano gli studi e accurate le sperimentazioni, sostengono gli esperti di Greenpeace, nessuno può escludere un evento straordinario, e nessuno può affermare di conoscere veramente le molteplici interazioni chimiche che possono verificarsi nel corso dei secoli.

(International Herald Tribune, 3 giugno 2011)

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