4 dicembre 2020

L'intervento dello Stato durante la pandemia: chi pagherà i conti?

Roberto Artoni

La pandemia ha messo in evidenza la fragilità dell’attuale sistema economico e sociale. Accanto alle necessarie misure di emergenza è necessario individuare politiche che invertano con determinazione le scelte degli ultimi anni
 
 
Un disastro economico
Non occorre spendere molte parole per dimostrare che la pandemia ha avuto effetti economici che hanno pochi riscontri nella storia moderna.
Per ricordare alcuni dati essenziali, il Fondo Monetario Internazionale stima che nel 2020 il prodotto interno diminuirà dell’8% nei paesi dell'area euro. In Italia, dove l’incidenza di alcuni settori, come il turismo, è particolarmente importante, il PIL cadrà del 10%.
La caduta del prodotto interno ha comportato, e continuerà a farlo in futuro, importanti flessioni nei livelli occupazionali, soprattutto nel settore dei servizi, ampiamente oggetto di provvedimenti di lockdown. 
Si sono poi manifestati effetti sui conti pubblici: nei paesi avanzati l’indebitamento dovrebbe salire dal 3 al 14% del prodotto interno (sempre nelle stime del Fondo) In Italia l’indebitamento dovrebbe superare nel 2020 il 10%, contro l’1,6 del 2019.
Di conseguenza, il debito pubblico lieviterà in tutti i paesi: in Italia il rapporto debito prodotto dovrebbe raggiungere un livello raramente riscontrato nella storia del nostro paese (161), con un aumento di 26 punti rispetto al 2019.
.
Interventi di emergenza
I governi di tutti i paesi hanno reagito con una serie di misure di emergenza consistenti in buona misura in aiuti ai settori più colpiti per tentare di rallentare la caduta.
All’inizio di ottobre l’Italia aveva messo in campo 80 miliardi di spesa pubblica finanziata in disavanzo con interventi volti a tamponare le conseguenze sociali della crisi. Gli interventi, per ricordare i più rilevanti, sono stati destinati per 26 miliardi alla tutela del lavoro, 21 alle imprese, 11 a integrazione della liquidità del sistema bancario, altrettanti agli enti territoriali, 5 alla sanità e 3 alla scuola.
Il peso del neoliberismo
La crisi pandemica non era certamente prevedibile nella sua portata. Alle sue immediate manifestazioni si è dovuto necessariamente far fronte con provvedimenti di emergenza, quali quelli adottati nel nostro paese. 
In un quadro più ampio, ci dobbiamo comunque chiedere, in primo luogo, se la crisi è stata aggravata dalle politiche sistematicamente adottate negli ultimi decenni nei paesi dell’Unione europea; in secondo luogo, si pone il problema di individuare politiche di diverso taglio che ci consentiranno in futuro di uscire positivamente dalla situazione di emergenza nella quale ci troviamo.
Fattori preesistenti hanno certamente aggravato una crisi come detto imprevedibile e incontrollabile, ma, non solo mio giudizio, le politiche neoliberiste indirizzate a mercato del lavoro, a strutture di welfare, all’apparato produttivo hanno contribuito ad aggravare la crisi. In passato queste politiche hanno indebolito i sistemi economici e sociali, producendo, soprattutto in Italia, tassi di crescita molto modesti. Oggi, la capacità di risposta delle economie nazionali, la resilienza per usare un termine di moda, è stata di conseguenza diminuita.

Come uscirne?
Come si può uscire da questa situazione? 
Nel breve periodo, come già osservato, si deve controllare l’emergenza con robusti interventi di sostegno alle componenti più colpite. Ma, in una logica non emergenziale e di medio periodo, è necessaria un’inversione delle politiche seguite in questi anni. Possiamo indicare sinteticamente le linee essenziali di una nuova politica economica.

Contrasto alla precarizzazione
Un'equilibrata distribuzione del reddito non è soltanto una necessità etica, ma è una condizione essenziale per il buon funzionamento dell’economia, come viene ormai riconosciuto anche dal Fondo Monetario Internazionale. Al contrario, in questi ultimi decenni ha operato una forte redistribuzione del reddito verso l’alto, ai danni delle classi meno elevate. Si sono sviluppate in particolare forme di lavoro precario e sottoretribuito, che costituiscono un potenziale fattore di pericolo per la convivenza sociale. Appare quindi indispensabile, come detto, non solo sul piano equitativo ma anche sotto l’aspetto dell’efficienza macroeconomica, contrastare dal punto di vista legislativo la precarizzazione dei rapporti di lavoro, puntando a un riequilibrio del potere contrattuale nel mercato del lavoro. 
La situazione di questi mesi ha inoltre dimostrato la mancanza di una rete protettiva adeguata: occorrerebbe anche in Italia sviluppare un ragionamento serio su reddito di cittadinanza. In tutto il mondo si sta discutendo su come ci si possa difendere di fronte a situazioni d’emergenza come questa, predisponendo forme di tutela capaci per la loro universalità di contenere fenomeni potenzialmente disastrosi. Si deve comunque sottolineare che gli interventi assistenziali possono raggiungere le loro finalità solo in un contesto distributivo primario appropriato: un corretto funzionamento del mercato del lavoro è un presupposto necessario per efficaci politiche assistenziali.

Funzionalità dei grandi servizi sociali
In questi anni abbiamo assistito a una politica di indebolimento progressivo dei grandi servizi sociali, soprattutto dei sistemi sanitari pubblici, con la conseguenza di lasciare numerose esigenze mediche non soddisfatte.
L’Italia si è segnalata in questa politica di contenimento della spesa sanitaria. Dal 2000 al 2009 il tasso di crescita della spesa reale pro capite è stato negativo; solo negli ultimi anni è stato registrato un lieve incremento, comunque inferiore a quello dei paesi avanzati. Gli effetti si sono manifestati nella situazione drammatica di questi mesi, in termini di insufficienza delle strutture sanitarie, di inadeguatezza delle forme di intervento e di assenza della medicina territoriale.
La priorità quindi dovrebbe essere la tutela della sanità pubblica. Si stanno al contrario sviluppando forme, anche su sollecitazione sindacale, di welfare aziendale. Ne deriverebbero la segmentazione degli accessi alle cure mediche, compromettendo ulteriormente la funzionalità di un sistema sanitario pubblico.
Altro nodo, che si manifesterà nel corso del tempo, riguarda la previdenza.
Anche i sistemi pensionistici sono stati oggetto di una profonda cura in questi anni: sono stati varati numerosi interventi finalizzati a contrastare la crescita della spesa, con una visione puramente finanziaria del sistema.
Oggi in Italia ci troviamo di fronte a un problema di futura inadeguatezza delle pensioni. Soprattutto per coloro che oggi hanno lavori precari o redditi molto bassi, dato il sistema vigente in Italia puramente contributivo, si produrrà in futuro una situazione di disagio sociale molto diffuso. A questo quadro normativo si è sovrapposto il disastro prodotto dalla pandemia con riduzione dei rapporti di lavoro, diminuzione dei redditi e ulteriore precarizzazione: tutto ciò inciderà sulla capacità del sistema pensionistico di far fronte alle esigenze sociali fondamentali.

Chi pagherà?
Dobbiamo chiederci a questo punto se e come sarà distribuito l’onere del debito accumulato per effetto della pandemia.
Si deve preliminarmente porre una radicale distinzione fra debito interno ed estero.
Il primo si muove all’interno di una collettività e, se nel tempo viene rinnovato, si risolve nel pagamento degli interessi, da parte della generalità dei contribuenti, a favore di chi detiene titoli pubblici. Il debito estero invece implica un trasferimento reale di risorse dal paese debitore al paese creditore. Ne segue che il debito estero può essere causa di crisi finanziarie, mentre il debito interno può essere ragionevolmente gestito.
La storia d’Italia è molto significativa dal punto di vista delle vicende del debito pubblico. Il nostro paese ha conosciuto crisi della finanza pubblica sotto ogni regime: post-unitario, post-bellico, fascista e quella attuale. Questo eccesso di accumulazione di debito pubblico è stato gestito con varie modalità: con lo sviluppo, l’inflazione o la cancellazione.
L’episodio virtuoso è quello del periodo giolittiano, in cui il rilevante tasso di sviluppo ha consentito di riassorbire, in termini di prodotto interno, il debito, dal 100 – 110% del PIL a fine secolo XIX a circa 70% nel 1911.
Dopo la seconda guerra mondiale, il rilevante debito pubblico, già cresciuto nel corso degli anni ’30, è stato praticamente annullato con l'inflazione negli anni successivi alla fine della guerra.
Infine, alla fine della prima guerra mondiale il forte indebitamento, non solo dello stato italiano, nei confronti degli Stati Uniti, che avevano abbondantemente finanziato con materie prime lo sforzo bellico degli alleati, venne cancellato per ragioni di opportunità politica.
Ma veniamo all’oggi. Se ci sarà una politica assennata ed equa, che recuperi i valori del welfare e di una distribuzione del reddito equilibrata, questo eccesso di debito si riassorbirà con un buono sviluppo del prodotto. Volendo essere ottimisti si potrebbe ripetere in qualche modo quella che è stata l'esperienza del periodo giolittiano: alti tassi di sviluppo e tassi di interessi inferiori al tasso di crescita potrebbero innescare un meccanismo per cui il debito sarebbe progressivamente riassorbito in un più elevato reddito. Grazie a un tasso di crescita coerente con le potenzialità produttive del paese, il servizio del debito e il pagamento degli interessi ai sottoscrittori italiani del debito non dovrebbero porre particolari problemi: in questo contesto, del tutto ottimistico, il rapporto debito prodotto potrebbe scendere dall'attuale 160% a livelli accettabili nel giro di 10 - 15 anni.
L’alternativa sarebbe un fenomeno inflazionistico che cancelli di fatto il debito. Si deve tuttavia osservare che oggi solo una minima parte del debito è detenuta dalle famiglie: una larga parte è invece collocata presso gli intermediari finanziari e le banche centrali. Un saggio uso degli strumenti di politica monetaria potrebbe ridurre sia i pericoli di inflazione, sia gli effetti che ne deriverebbero.
La terza possibilità, maldestra, di riduzione del debito, passa attraverso le politiche di austerità. Per ridurre il debito si ricercano avanzi di bilancio, soprattutto attraverso tagli alla spesa pubblica. Le vicende di questi anni dimostrano che le politiche di austerità contengono i disavanzi pubblici annuali (da oltre vent'anni l'Italia ha un avanzo primario, cioè prima del pagamento degli interessi sul debito, positivo), ma riducono anche il tasso di crescita del sistema. Infatti il nostro debito pubblico è rimasto sempre attorno al 130% nonostante saldi di bilancio molto vicini al pareggio di parte corrente.
L’onere del debito dipenderà quindi dalle politiche adottate. Sono tre, come detto, le alternative che potrebbero realizzarsi. Una buona politica, lontana dall’ispirazione neoliberista e sulle linee di quelle che abbiamo delineato, potrebbe portare al progressivo assorbimento dell’eccesso di debito all’interno di un’economia che segue un sentiero di sviluppo.
Con una politica inflazionista a pagare sarebbero i detentori dei titoli: sarebbe soprattutto compromesso l’equilibrio di bilancio degli intermediari finanziari in assenza ai interventi compensativi delle autorità monetarie.
Infine, con politiche di austerità, o di non sviluppo, pagherebbero i ceti produttivi e le classi più deboli (ed è possibile che ne beneficino i rentier, se i tassi saliranno).
Quest’ultima ipotesi è la più pericolosa, peraltro in continuità con la politica condotta in questi anni dall’Unione europea, che di fatto ha causato parecchi danni e parecchia disaffezione. 
Non è azzardato ipotizzare l’indebolimento della costruzione europea in assenza di una diversa impostazione di politica economica e dell’acquisizione di una vera concezione federale dell’Unione. Con una politica consapevolmente europeista la gestione del debito sarà ovviamente più agevole per tutti gli stati.

Un sistema fiscale più funzionale
In conclusione si deve accennare ai problemi del sistema fiscale, che ovviamente meriterebbero un’analisi più specifica e molto più articolata. Appare comunque evidente che un rafforzamento delle strutture sociali di un paese richiede un sistema fiscale efficiente, oltre che legittimato nell’opinione dei cittadini.
Nei 2019 il sistema fiscale italiano ha dato un gettito pari al 42% del PIL; le entrate sono derivate da imposte dirette, imposte indirette e contributi sociali in parti pressoché uguali.
In questo contesto svolgono un ruolo puramente integrativo o marginale, le “imposte sul patrimonio”, che esistono sotto varie forme: imposte sulle successioni, sui trasferimenti immobiliari e sulle plusvalenze mobiliari. Da qui proviene circa il 2,7% del gettito (circa 30 miliardi). Sono imposte non ricorrenti e sostanzialmente prive di finalità redistributive.
In passato, un’imposta sulle “grandi fortune” è stata istituita in Francia che, al netto di esenzioni e correzioni, ha dato un gettito assai modesto (poco più dell’1% del PIL). L’imposta è stata abolita nel 2018.
Quello di cui si discute molto in questi tempi è l’introduzione di un’imposta sulla ricchezza possibilmente progressiva: l’economista francese Piketty si è fatto portavoce di questa proposta. Non si può non essere d’accordo in linea di principio, ma il problema è definire come quest’imposta deve essere articolata e integrata nel sistema fiscale e quali effetti potrebbe eventualmente produrre. La ricchezza è infatti costituita essenzialmente da ricchezza fisica (ad esempio la casa di abitazione), attività finanziarie, e beni strumentali impiegati nelle imprese.
Il primo problema riguarda l’estensione della base imponibile di questa imposta. Sulla casa di abitazione le opinioni sono diverse: in Italia è stata detassata la prima casa che era la componente più importante del gettito. Al momento la ricchezza finanziaria è tassata in quanto produttrice di rendimenti (noi ora paghiamo il 26% sugli interessi non da titoli di Stato e sui dividendi che percepiamo). Un'imposta patrimoniale sulla ricchezza mobiliare potrebbe per questa componente configurarsi come una doppia tassazione del patrimonio, se la tassazione si estende anche ai rendimenti.
Questi sono alcuni dei problemi di un’imposta sulla ricchezza che si aggiungono a quelli relativi al gettito che si intende ottenere e all’individuazione di una soglia di esenzione. È quindi certo che esiste un’ampia convergenza sull’opportunità di introdurre una significativa forma di tassazione della ricchezza, ma è altrettanto certo che gli aspetti tecnici relativi all’integrazione con altre componenti del sistema tributario non sono irrilevanti. Tutto ciò se non si vuole attribuire a un’imposta di questa natura un significato solo simbolico.
L’assetto del sistema fiscale, a parte la tassazione delle ricchezze, comporta altri problemi. A mio giudizio è importante l'assenza di collaborazione internazionale nella tassazione dei grandi capitali. In Italia si parla molto di evasione, ma altrettanto, se non più importante, è l’elusione fiscale che legalmente si può ottenere collocando altrove i propri redditi e i propri capitali.
Ancora, c’è un problema di definizione del sistema di tassazione dei redditi delle piccole imprese, per le quali si devono trovare sistemi forfettari efficaci.
Se dobbiamo potenziare la sanità e la previdenza, o in generale i servizi sociali, è evidente che miglioramenti degli assetti tributari sono fondamentali come presupposto di un gettito equamente distribuito.
Vedendo come vanno le cose nelle varie parti del mondo, le prospettive non sono incoraggianti, ma questi problemi devono affrontati con determinazione.


4 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  2. Analisi corretta dal pdv delle 'istanze di giustizia sociale' anche a vista. Carente dal pdv 'strutturale'. Non ci sono i numeri di riferimento. Non ci sono i riferimenti ai costi strategici, 'di Paese'. Non ci sono i riferimenti ai cd. 'costi di socializzazione dei nuovi cittadini'. etc. etc. etc.
    Non ci sono i riferimenti alle entrate pro-futuro! Non ci sono rimandi a nessuna tipologia di struttura del lavoro. presente e futura. Non ci sono elenchi di ALMPS. Si parla genericamente di fasce deboli. Chi sono queste 'fasce deboli'? Dove sono i riferimenti alla povertà, sia assoluta che relativa? Dove è prioritario intervenire per prevenire i breaktrough sociali? E saldare in modo strutturale le legittime rivendicazioni sui salari.

    Finanza pubblica. Bene il riferimento al debito pubblico. Manca l'analisi del 'come' si siano spesi i soldini in deficit di emergenza!

    Saluti

    RispondiElimina
  3. Commento corretto dal punto di vista dei temi messi sul tappeto. Carente dal punto di vista etico. Non c'è il nome di chi obietta. Non c'è il cognome di chi dissente. Si parla genericamente di un potente.

    RispondiElimina
  4. Il testo pubblicato è la trascrizione dell'intervento del prof. Artoni a un incontro di non specialisti, volutamente privo di dati quantitativi.
    Uno sviluppo del tema del servizio sanitario, ricco di dati numerici, potete trovarlo all'indirizzo https://welforum.it/health-at-a-glance-europe-2020/
    e altri sono disponibili.

    RispondiElimina

Lascia qui un tuo commento