4 dicembre 2020

La guerra del Labour

Il 29 ottobre scorso Jeremy Corbyn, l’ex leader dei laburisti britannici, è stato espulso dal partito per non aver combattuto con sufficiente determinazione l’antisemitismo nel partito e aver dichiarato il problema sopravvalutato. Poche settimane dopo il Comitato nazionale esecutivo lo ha reintegrato ma Keir Starmer, il successore di Corbyn alla guida del partito, ha deciso di non riammetterlo nel gruppo parlamentare, almeno fino a che non si sarà conclusa un’indagine interna.
 
 
Fin qui la cronaca. 
Ma come si è arrivati a un provvedimento tanto grave?
Non è un mistero che l’ala destra del Labour abbia sempre mal digerito la leadership di Corbyn cercando in ogni modo di allontanarlo anche a costo di favorire i conservatori. Per i blairiani sarebbe stato difficile però emarginare la sinistra del partito contestandone l’agenda politica, considerato anche come Corbyn ha saputo rivitalizzare il partito, coinvolgendo migliaia di giovani. Ed ecco trovato il grimaldello: le accuse di antisemitismo, portate avanti da alcune organizzazioni ebraiche nel costante tentativo di delegittimare chiunque si batta per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi. 
Per tutta la campagna elettorale dello scorso anno i media hanno talmente insistito su questo tema che molti cittadini sono convinti che gli episodi di antisemitismo nel Labour siano almeno cento volte più numerosi di quanto appurato dall’EHRC, la Commissione per l’uguaglianza e i diritti umani che nel 2019 ha avviato un’indagine formale.
Il rapporto conclusivo, presentato a fine ottobre, è stato riconosciuto fondamentalmente corretto anche da Corbyn. In esso si evidenziano ritardi nella segnalazione dei casi, poca chiarezza sui procedimenti, mancanza di formazione del personale preposto a vigilare. Il rapporto non manca tuttavia di rilevare che i casi di antisemitismo non sono aumentati negli anni di Corbyn e che anzi il partito dal 2018 ha adottato procedure più solide per le segnalazioni dei casi di discriminazione. 
In sostanza, dopo la sconfitta elettorale dello scorso anno, si attendeva il momento giusto per regolare i conti, che è arrivato con la pubblicazione del rapporto e la pandemia, che ha complicato la possibilità di mobilitarsi. Ciò nonostante i sindacati e moltissimi membri del partito hanno fatto sentire la loro voce. Con loro anche l’associazione Jewish voice for labour, che contesta Keir Starmer per la sua visione stereotipata della comunità ebraica. “Confidiamo – scrivono - che, nell'interesse dell'unità del partito a cui si è impegnato, estenderà la stessa cortesia agli ebrei come noi che sono membri del partito attivi ed entusiasti ma hanno una visione politica diversa ... Non vediamo l'ora di sentire che sta facendo approcci simili al Consiglio musulmano della Gran Bretagna e ad altri gruppi che rappresentano una gamma di opinioni tra musulmani, persone di colore, rifugiati, migranti e gruppi rom.”
E’ presto per dire se la strategia del nuovo corso laburista avrà successo. Di certo in pochi mesi il 10% degli iscritti ha lasciato il partito e la promessa di lavorare per la sua unità è già carta straccia.


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