di Elena Basso
Lo scorso ottobre, con una storica decisione, il Consiglio comunale di Oslo ha vietato l'accesso agli appalti pubblici di beni e servizi provenienti dagli insediamenti israeliani. Anche l’Irlanda potrebbe seguirlo, mentre la Corte di giustizia europea ha confermato il divieto di etichettare come “israeliani” i prodotti provenienti dagli insediamenti.
Il Consiglio comunale di Oslo recentemente eletto ha approvato una piattaforma per il 2019-2023 che prevede il divieto di merci provenienti dagli insediamenti illegali di Israele nel territorio palestinese occupato. Altri cinque comuni norvegesi e una contea avevano già vietato gli affari con gli insediamenti israeliani.
La decisione segue di pochi giorni la richiesta dell'esperto indipendente delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi, Michael Lynk, di boicottare tutti i prodotti degli insediamenti israeliani, come passo verso la fine dell'occupazione illegale di Israele vecchia ormai di 52 anni.
Nel 2018, tre partiti di destra hanno cercato di prevenire il boicottaggio degli insediamenti votato dai comuni di Trondheim e Tromsø. Tuttavia, il Segretario di Stato norvegese presso il ministero degli Esteri, Audun Halvorsen, ha affermato che un boicottaggio di “beni e servizi prodotti negli insediamenti non contraddice gli impegni internazionali della Norvegia” (https://www.bdsmovement.net/news/norways-capital-oslo-banning-israeli-settlement-goods-and-services).
Anche il Parlamento irlandese ha approvato un disegno di legge che vieterebbe all'Irlanda di importare merci dagli insediamenti illegali di Israele, ma alcuni esponenti governativi sostengono che vietare determinati prodotti è una prerogativa esclusiva dell’Unione europea. L’iter non è concluso, ma il problema è sollevato.
Significativa è anche la sentenza della Corte di giustizia europea alla quale si era rivolta un’azienda vinicola operante nei territori occupati, sostenuta dall’Organisation juive européenne, contro il Ministero dell’economia e delle finanze francese, accusato di aver interpretato in maniera restrittiva le norme europee. Il 12 novembre la Corte ha confermato le linee guida della Commissione europea e ha stabilito che i prodotti delle colonie israeliane nei Territori palestinesi occupati non possono essere etichettati come “prodotti d’Israele”, ma devono specificare la provenienza dagli “insediamenti israeliani” nei Territori. Nelle motivazioni della sentenza si legge fra l’altro: “Così come molti consumatori europei si sono opposti all’acquisto di beni sudafricani nel periodo dell’apartheid, i consumatori attuali potrebbero sollevare obiezioni per motivi analoghi in relazione all’acquisto di beni da un determinato paese perché, ad esempio, esso non è una democrazia, o perché persegue particolari politiche o linee di condotta sociali che il consumatore può considerare discutibili o persino ripugnanti. Nell’ambito delle politiche israeliane nei confronti dei territori occupati e degli insediamenti, potrebbero esserci alcuni consumatori che si oppongono all’acquisto di prodotti provenienti da tali territori, proprio perché l’occupazione e gli insediamenti integrano chiaramente una violazione del diritto internazionale.” (http://curia.europa.eu/juris/documents.jsf?num=C-363/18).