25 febbraio 2022

Ucraina: chi vuole la guerra?

[eb]

Mancano pochi mesi alla dissoluzione dell’Unione sovietica e già Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e Romania chiedono di aderire alla Nato; l’Alleanza atlantica respinge questa richiesta e ribadisce quanto a più riprese aveva garantito al premier sovietico Gorbaciov per favorire la sua politica distensiva il segretario di Stato USA James Baker: “la Nato non si estenderà di un millimetro a est” [1].


Sappiamo tutti come è andata. Progressivamente diversi paesi dell’Europa orientale entrano nella Nato, con l’attivo sostegno di Washington e nel silenzio del resto d’Europa. Dal 1999 sono ben 14 i paesi dell’Europa orientale, comprese alcune repubbliche ex-sovietiche, entrati nella Nato, di cui oggi costituiscono quasi metà dei membri.
È evidente che l’espansione della Nato fino ai propri confini preoccupa la Russia, che vede moltiplicarsi il numero di missili americani sempre più potenti, sempre più veloci e sempre più vicini alle proprie frontiere, in grado quindi di raggiungere in pochi minuti il cuore del paese [2].
Per evitare questo pericolo da anni la Russia persegue la ricerca di un accordo per la sicurezza reciproca con gli Stati Uniti e la NATO, alternando proposte diplomatiche (le ultime solo due mesi fa [3]), con minacce (di rispondere ai missili NATO con missili in grado di colpire i paesi europei), e con interventi militari a favore di paesi alleati (Siria) o di minoranze filo-russe (Georgia e, appunto, Ucraina).
Sinora nessuna risposta è mai venuta alle aperture russe, giudicate sempre “insufficienti”. Non dall’America, ansiosa di mantenere la sua posizione di unica superpotenza mondiale, né da parte dell'Europa, primo terreno di scontro in una eventuale guerra russo-americana per l'Ucraina, ma incapace di autonomia dall’ingombrante alleato-padrone d'oltre Atlantico.
Veniamo all’Ucraina: paese di recente indipendenza, privo di una forte tradizione unitaria (per secoli parti del suo territorio sono state soggette alla Russia, all’Austria-Ungheria, alla Polonia, alla Lituania), diviso per lingua (l’ucraino, lingua ufficiale del paese dal 1991, domina nelle aree centro-occidentali e nelle campagne, il russo nelle aree orientali e meridionali e nelle città), per religione (prevalentemente ortodossi divisi tra il patriarcato d Mosca e quello di Kiev), per orientamento economico (a forte vocazione agricola le aree centro-occidentali, che hanno valso all'Ucraina il nome di “granaio d'Europa”, più industrializzato il sud-est). Dall’indipendenza al governo si alternano oligarchi che conducono politiche considerate filo-occidentali o filo-russe a seconda degli interessi prevalenti delle loro aziende.
Nel 2011 il presidente Yanucovich avvia trattative con l’Unione europea per un trattato di libero scambio ma nel 2013, ritenendo troppo onerose le condizioni per i prestiti richieste dalla UE (che chiede riforme politiche e strutturali e misure di austerità), si avvicina a Mosca, che offre 15 miliardi di prestiti e gas a prezzi di favore [4].
Questa decisione dà l’avvio alle proteste che culmineranno nel 2014 con la famosa rivolta di piazza Maidan che portò alla destituzione del governo eletto (e più tardi agli accordi con la UE). Presentata dai media occidentali come una legittima protesta di cittadini che si opponevano ad accordi con Mosca e contro i quali la polizia sparava, in realtà è stato acclarato che in queste manifestazioni operavano cecchini neonazisti che dovevano provocare più morti possibili facendo ricadere la responsabilità sul governo Yanukovich, e che questo piano era stato orchestrato con il coinvolgimento statunitense [5].
Lentamente Kiev torna alla normalità, non così le regioni sud-orientali: il nuovo governo revoca le precedenti autonomie e proibisce l’insegnamento della lingua russa, provocando ampie mobilitazioni antigovernative contro le quali agiscono con violenza gruppi neonazisti. L’episodio più grave avviene a Odessa, il 2 maggio 2014, quando i manifestanti filorussi vengono inseguiti fino al palazzo dei sindacati che viene dato alle fiamme, altri vengono linciati. A tutt’oggi il numero delle vittime, tutte di etnia russa, è incerto (forse 150) e le autorità ucraine non hanno mai svolto una seria inchiesta.
Nel frattempo la Russia non sta a guardare e sostiene militarmente i separatisti del Donbass e della Crimea. Quest’ultima già a marzo dichiara l’indipendenza, confermata a maggio dal referendum, e poco dopo si autoproclamano indipendenti le Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk. Il governo di Kiev non intende perdere altro territorio e lancia un’operazione militare contro il Donbass.
Per tentare di fermare il conflitto l’OSCE riesce a portare al tavolo delle trattative Mosca e Kiev, trattative che si concludono nel 2015 con gli accordi di Minsk, che prevedevano, oltre a un cessate il fuoco, la concessione di maggiore autonomia alle province sud-orientali.
Questi accordi non vengono sostanzialmente rispettati e nel 2019 l’Ucraina, paese fino a pochi anni prima neutrale, modifica la Costituzione con l’obiettivo di integrare il paese nella UE e nella Nato, una decisione che allontana sempre più la soluzione del conflitto.
Secondo il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko, intervistato da Jacobin [6], uno dei motivi del fallimento di Minsk “va ricercato nelle violente minacce molto esplicite dei nazionalisti ucraini, che percepiscono Minsk come una capitolazione per l’Ucraina. Per i nazionalisti, Minsk significa riconoscere la diversità politica dell’Ucraina”. Per la popolazione ucraina i problemi veri riguardano il lavoro, i salari e l’aumento vertiginoso dei prezzi, e non certo le relazioni geopolitiche. Tuttavia i nazionalisti, che fra le loro fila annoverano gruppi violenti e dichiaratamente neonazisti, hanno condizionato e condizionano la politica ufficiale, dalla quale hanno anche ottenuto risorse che hanno permesso loro di creare unità armate e centri di addestramento, che spesso sfuggono al controllo del governo [7]. Nel loro programma è prevista anche l’eliminazione della lingua russa: in un paese che ha una consistente minoranza russa e un’ancor più ampia minoranza russofona, queste posizioni non possono che far crescere le divisioni interne.
A queste tensioni interne si aggiungono quelle innescate nell’ultimo mese dalla presunta imminente invasione delle truppe russe. È interessante a questo proposito il punto di vista di Ishchenko che sostiene che all’inizio “l’Ucraina non si sia nemmeno accorta di questa campagna sui media occidentali. Ha poi cercato di sfruttare la campagna chiedendo più armi e sanzioni preventive contro la Russia. Solo poche settimane fa il governo ucraino ha iniziato a fare dichiarazioni molto esplicite sul fatto che l’invasione non è davvero imminente, che siamo sotto la minaccia russa dal 2014 e ci siamo abituati ... Questa campagna mediatica occidentale ha avuto conseguenze molto materiali e negative per l’economia ucraina e il governo ha avuto una certa paura che anche senza un’effettiva invasione, l’economia ucraina potesse finire in guai seri”.
Dunque perché in Occidente si è continuato a dare per imminente un’invasione, accettando come oro colato le veline che arrivavano dai servizi di intelligence americani? L’ipotesi è che Biden voglia alzare il livello dello scontro perché gli europei si allineino alla sua politica di rottura con Mosca e per questo sia necessario orientare l’opinione pubblica europea. 
Il rischio che questa strategia portasse a un’escalation militare era già scritto e la debole Ucraina si è trovata stretta fra più fuochi: un’azione distensiva, quale la rinuncia all’adesione alla Nato, sarebbe stata violentemente contrastata dalle milizie nazionaliste già operanti nel Donbass.
Ma perché proprio ora? Difficile dare una risposta univoca. 
Dal canto suo la Russia non fa che ripetere da trent’anni le stesse richieste, e cioè la non espansione della Nato a est, il ritiro delle armi nucleari statunitensi schierate in Europa e il ritiro delle truppe occidentali dai paesi dell’Europa orientale. E' possibile che in questo momento si senta abbastanza forte (e la Nato abbastanza debole) da costringere gli occidentali a qualche concessione. 
Per gli Stati Uniti una ragione potrebbe essere l'imminente completamento del gasdotto North Stream 2 che collega via mare la Russia alla Germania evitando così il transito dall’Ucraina e dai paesi baltici e che renderebbe autonome la Germania e la Russia da pressioni di terzi. Solo una forte tensione tra l'Europa e Mosca potrebbe aprire la strada al sogno americano di sostituirsi alla Russia come principale fornitore di gas all'Europa (un gas molto più costoso, dovendo essere liquefatto, trasportato per nave attraverso l'Atlantico e rigassificato all'arrivo)
L’Europa, rimasta pressoché silente fino a pochi giorni fa, ora si affanna a cercare una via d’uscita diplomatica alla crisi. Riuscirà ad assumere una posizione autonoma da quella dell’ingombrante alleato e ridare slancio agli accordi di Minsk?

[1] https://www.monde-diplomatique.fr/2018/09/DESCAMPS/59053
[2] https://www.nytimes.com/2022/02/16/world/europe/poland-missile-base-russia-ukraine.html?
[3] https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/12/17/la-reazione-della-nato-degli-usa-allaccordo-sulle-garanzie-sicurezza-russe/
[4] https://it.insideover.com/schede/politica/perche-si-parla-di-una-crisi-tra-ucraina-e-russia.html
[5] https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3735661
[6] https://jacobinitalia.it/ripartire-da-minsk/


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