3 agosto 2021

Ricordo di un amico: Gian Piero Dell'Acqua

Marco Pastonesi

Trent'anni fa, in casa di Ernesto e Lidia Treccani, conobbi una giovane signora, Nazarena Manera, desiderosa di svolgere attività di volontariato con la cooperativa di cui allora mi occupavo. Da quella esperienza nacque un solido rapporto di amicizia tra mia moglie Loredana e Nazarena, che la volle come testimone alle nozze col suo compagno, Gian Piero Dell'Acqua. Da allora, e sinché Ernesto e Lidia furono in vita, ci trovavamo a turno a casa degli uni o degli altri, parlando d'arte (io stavo zitto), di politica, di vita, e cenando magnificamente (in casa Dell'Acqua il cuoco era Gian Piero, e che cuoco!).
Gian Piero ci ha lasciati improvvisamente l'11 luglio di quest'anno. Lascio la parola, per ricordarlo, a un suo ex-collega, Marco Pastonesi, pubblicando ampi stralci di un suo articolo su Il foglio” (https://www.ilfoglio.it/tag/gian-piero-dell%27acqua/).
Gian Piero ha collaborato più volte con questa newsletter, in particolare chiedendo alto e forte giustizia per Giulio Regeni, prima, quando il caso era bellamente ignorato dalla politica e dai media, e successivamente ogni volta che stava per essere archiviato.

      
La notte fra sabato e domenica è morto Gian Piero Dell’Acqua. Moltissimo di quel pochissimo di giornalismo che ho imparato è merito suo.
Era il 1977. Dell’Acqua - aveva 47 anni, ne dimostrava di più o forse a noi sembrava più vecchio di quello che era - mi ricordava il Walter Matthau direttore dello “Chicago Examiner” di “Prima pagina”: secco, sarcastico, tagliente, definitivo. Un “hard-boiled” milanese, anche se comasco di origine. Dirigeva le pagine milanesi di Repubblica con un paio di giovani redattori e un esercito di collaboratori, tutti specializzati se non specializzatissimi. Ordinava e organizzava, impartiva e spartiva, progettava e costruiva, assegnava e soprattutto segnava gli errori, spesso stracciava e cestinava. Ruggendo, ringhiando, guaendo, barrendo. Brontolando, mugugnando, urlando, esclamando. E fumando. Una Gitanes senza filtro via l’altra.
Però insegnava. Insegnava il mestiere, non la professione. Insegnava l’artigianato, non l’arte. Insegnava la bassa manovalanza, non l’alto livello o l’alta qualità o altre alte fesserie. Insegnava a scrivere, soprattutto a stringere, tagliare e asciugare. La notizia in testa, d’accordo. Poi la polpa, la ciccia, cioè la roba buona, concreta, fatta di virgolettati, informazioni, cifre, indirizzi. Niente avverbi e aggettivi, niente luoghi comuni e frasi fatte. Niente “credo che”, “ricordo che”, “penso che”, “dico che”. Guai a “praticamente” e “in pratica”, a “indubbiamente” e “senza dubbio”, a “purtroppo” e “infatti”. Pezzi di 40 righe venivano segati a 20, ridotti a 10, decimati a quattro. Articolesse venivano appallottolate e lanciate verso un cestino. Il pezzo ideale era un concentrato straripante di informazioni. In 20 righe, predicava, ci può stare tutto. In 10, esagerava, ci può stare ancora di più. E aveva ragione. 
Dell’Acqua non aveva preclusioni: chiunque avesse una buona idea poteva, se non doveva, scrivere un pezzo. Ma non tutti sapevano, e non tutti dovevano, scriverlo. C’erano, fra le centinaia di collaboratori più o meno saltuari e occasionali, i colti e gli ignoranti, i dotti e gli analfabeti, i timidi e gli spavaldi, i fuoriclasse e i negati, i professori e gli sciroccati, i figli di nessuno e anche i figli di giornalisti. Lui li trattava tutti allo stesso modo: mordendoli, azzannandoli, triturandoli, perfino insultandoli. C’erano quelli che sarebbero diventati direttori, a cominciare da Carlo Verdelli (alla “Gazzetta dello Sport” e alla stessa “Repubblica”). Ma tutti quelli passati da lui, o meglio, sotto di lui, hanno imparato il mestiere. E li riconosci ancora da come si indignano davanti a uno sbrodolamento, da come reagiscono all’aria fritta, da come patiscono gli anglicismi, da come si inalberano davanti agli errori perpetuati per negligenza, sciatteria, pressapochismo, ignoranza. Da come tuonano adesso come tuonava allora Dell’Acqua.
Dell’Acqua amava il cinema, dei film conosceva le battute, dei registi il curriculum, degli attori le espressioni. Guidava le Alfa Romeo e tifava l’Inter. Se solo fosse stato possibile, avrebbe aderito, abitato, adottato la Spagna, anzi, i Paesi Baschi. Storia, geografia, cucina, tradizioni, ovviamente (questo “ovviamente” me lo avrebbe amputato al volo) cinema. Le sue vacanze, i suoi viaggi – su un’Alfa Romeo – finivano là, tra la festa di San Firmino a Pamplona e i raid nei bar di Vitoria e Donostia. Brusco, burbero, lunatico, Gian Piero aveva slanci di tenerezza e attenzione di grande nobiltà. Una volta, a Ravelli, regalò alcune teste d’aglio basco. Davvero speciale, secondo Fabrizio. A mangiare e bere – bene – ci teneva sempre. E sapeva cucinare con passione e competenza: i suoi risottini erano degni di un ristorante stellato.
Le nostre strade si divisero, l’amicizia rimase. Un giorno lo invitai a pranzo a casa. A casa dei miei genitori. Mia madre esibì i suoi classici, ereditati da mia nonna mantovana. Dell’Acqua fu conquistato non solo dai piatti di mia madre, ma anche da mia madre. E mio padre, un po’, s’ingelosì. Mia madre, di questo sussulto di gelosia, a Dell’Acqua fu grata. E da allora mi avrebbe sempre chiesto sue notizie.
Ma le notizie erano quelle che erano. Gian Piero, in pensione, studiava i suoi due o tre quotidiani, ascoltava musica, guardava film, andava al cinema, divorava romanzi e saggi, coccolava un paio di gatti, continuava a fumare e cucinare, a indignarsi e brontolare. Il suo caratteraccio non lo aiutava granché a tenere relazioni né a riscaldare amicizie. Si sottraeva ai premi, sfuggiva agli inviti, dribblava i ritrovi, evitava le riunioni. Cedeva soltanto a qualche visita, meglio se accompagnata da un risottino, e da una peperonata, e da una macedonia. E conclusa, temporaneamente, da una Gitanes.
Finché l’ictus. Il Fatebenefratelli. Il cuore stremato dalle arrabbiature e dalle Gitanes. Aveva 91 anni. La vittoria ai rigori dell’Italia sulla perfida Albione gli avrebbe regalato, a lui come al resto del popolo basco, un sorriso. Per poco non ce l’ha fatta. Peccato.

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