11 marzo 2020

Il contagio della paura

Elena Basso

Le epidemie scatenano paure ancestrali. Le misure adottate contro la diffusione del contagio da coronavirus sono una risposta adeguata? Proviamo a fornire alcuni spunti di riflessione

Il Ministero della salute descrive i coronavirus (CoV) come “un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie da lievi a moderate, dal comune raffreddore a sindromi respiratorie più gravi. Comuni in molte specie animali, in alcuni casi possono evolversi e infettare l’uomo per poi diffondersi nella popolazione. Un nuovo coronavirus è un nuovo ceppo di coronavirus che non è stato precedentemente mai identificato nell'uomo. In particolare quello denominato COVID-19, non è mai stato identificato prima di essere segnalato a Wuhan, in Cina, a dicembre 2019. Come altre malattie respiratorie, l’infezione può causare sintomi lievi come raffreddore, mal di gola, tosse e febbre, oppure sintomi più severi quali polmonite e difficoltà respiratorie. Raramente può essere fatale. Le persone più suscettibili alle forme gravi sono gli anziani e quelle con malattie pre-esistenti.” (https://bit.ly/2TMhWQu)
L’Italia, seguendo le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha da tempo predisposto un “piano di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_501_allegato.pdf) in cui si può leggere: “L’incertezza sulle modalità e i tempi di diffusione determina la necessità di preparare in anticipo le strategie di risposta alla eventuale pandemia, tenendo conto che tale preparazione deve considerare tempi e modi della risposta. Infatti, se da una parte un ritardo di preparazione può causare una risposta inadeguata e conseguenti gravi danni per la salute, dall’altra, qualora l’evento non accada, un investimento eccessivo di risorse in tale preparazione può, in un quadro di risorse limitate, causare sprechi e stornare investimenti da altri settori prioritari.”
Secondo il direttore esecutivo dell’OMS, che pure ha portato il livello di allerta da alto a molto alto, i nemici peggiori «in questa fase sono paura, voci senza fondamento e stigmatizzazioni. I nostri più grandi asset sono fatti, ragionevolezza e solidarietà».
Siamo d’accordo, ma purtroppo è l’organizzazione stessa ad avere subito serie critiche. Le sue previsioni relative alle pandemie degli ultimi anni (mucca pazza, Sars, influenza suina, aviaria) si sono dimostrate in gran parte infondate. Ad esempio prevedeva che per l’aviaria sarebbero potute morire milioni di persone, una catastrofe paragonabile a quella della spagnola del 1918: per l’aviaria morirono 286 persone, tutte a contatto con il pollame. In compenso la Roche guadagnò milioni di franchi con il suo Tamiflu, un farmaco ritenuto in seguito pressoché inutile. 
Un allarme pandemico, in parte più motivato, arrivò con l’influenza suina: furono più di 150.000 i decessi in tutto il globo, un numero senz’altro alto, ma inferiore a quello di una normale influenza. La pandemia è costata all’Europa cinque miliardi di euro, con l’acquisto di milioni di dosi di vaccino inutilizzate e in scadenza.  
Ma che cos’è una pandemia? Fino a pochi anni fa l’OMS la definiva una malattia che provoca velocemente un gran numero di malati gravi e morti, poi, rendendosi conto che l'attesa del verificarsi di un alto numero di casi gravi significava arrivare sempre in ritardo, la definizione è stata modificata e sono scomparsi i morti e i malati. Quindi anche un virus a bassissimo rischio può rientrare nella definizione di pandemia, e mettere in moto provvedimenti che potrebbero dimostrarsi superflui. In particolare, per quanto riguarda il coinvolgimento dell'industria farmaceutica, da qualche parte è stato avanzato il sospetto che alcuni responsabili ai vertici dell’OMS possano trovarsi in conflitto di interessi per il loro ruolo nell’industria farmaceutica (dall’inchiesta “Il fantasma della pandemia” di Serena Tinari trasmessa dalla TV Svizzera italiana, https://www.youtube.com/watch?v=Qf91EK4MsiM
E qui veniamo a un altro aspetto sottolineato dai documenti ufficiali, ed è la comunicazione, che deve essere trasparente e razionale, mentre siamo tutti subissati da una valanga di parole che, anche quando vorrebbero tranquillizzare, con la loro insistenza alimentano la paura, privandoci, come scrive Gianni Tognoni, “del diritto/possibilità di essere interlocutori di un’autorità responsabile e dialogante”. Perché, chiede ancora Tognoni, “di fronte a un problema dichiarato di sicurezza nazionale non c’è stato neppure un tentativo di ritrovare tra i tanti esperti una responsabilità collettiva?” E ricorda come nel 1976 a Seveso la commissione dei tecnici quotidianamente discuteva i risultati e le proposte di sicurezza/legalità e di civiltà/democrazia, e le comunità erano soggetti e non destinatarie di misure autoritarie.
Un pensiero analogo è espresso da Gianrico Carofiglio, secondo il quale “Quello che molti di noi credono sulla consistenza dei pericoli ha poco a che fare con i pericoli oggettivi. Se il rischio è volontario ci sembra più basso e governabile, se ci viene imposto da altri o non si può controllare viene percepito con maggiore intensità. […] Le influenze normali producono oltre seimila decessi all'anno per cause dirette e indirette. L'inquinamento dell'aria produce da cento a duecento decessi al giorno in Italia, eppure nessuno pare preoccuparsi di questo rischio, rispetto a quelli connessi all'attuale epidemia. La possibilità di entrare in contatto con un virus misterioso mette in moto una preoccupazione diversa e, per quanto possa apparire assurdo, maggiore rispetto a quella di respirare particelle cancerogene. Questo è uno dei tanti segni della nostra irrazionale relazione con il mondo e l'incertezza” (ringraziamo l’amico Giuseppe Giolitti per la segnalazione dell’articolo pubblicato da “Repubblica”).
Un problema sanitario è diventato rapidamente un problema di ordine pubblico e l’ennesimo pretesto di scontro politico. Il principio di precauzione è valido solo se utilizzato con competenza, misurando tutti i fattori in gioco. Abbiamo invece assistito a conflitti di competenza fra regioni e stato centrale, a lanci di strali fra politici e virologi… Militarizzare territori e mettere economicamente in ginocchio un paese per un virus, per quanto aggressivo, avrà serie ripercussioni in futuro. Già ora le perdite economiche sono nell’ordine dei miliardi, e trascineranno con sé nuova disoccupazione e nuovi tagli di spesa.
Se ci atteniamo ai dati, ogni anno le normali influenze colpiscono il 15% della popolazione mondiale, provocando fra i 250.000 e i 500.000 morti. Nella sola Italia si stima una media di 8000 decessi legati alle complicanze dell’influenza (dati dell’Istituto superiore di sanità). Al 9 marzo i dati ufficiali per il Covid-19 stimano nel mondo 111000 contagiati e 3900 deceduti, in Italia 7985 contagiati e 463 morti, un numero che andrà però confermato dopo le verifiche dell’Iss.
Ma a governare è ormai la paura, le emergenze si susseguono alle emergenze, i nemici invasori ad altri nemici invasori, la decretazione d’urgenza annulla ogni divergenza e l’unità nazionale si costruisce sul panico.
L’altra grande vittima di questa vicenda è il sistema sanitario nazionale, già duramente colpito dai tagli degli ultimi anni. Vittorio Agnoletto ne scrive diffusamente sul suo blog (https://bit.ly/38p2389), mettendo in luce tutto ciò che non ha funzionato, e non funziona, nella tanto decantata sanità lombarda.
Infine, una provocazione. In Africa le locuste stanno devastando mezzo continente, un dramma che potrà costare la vita a venti milioni di persone per fame. Per fermarlo, sarebbero necessari 70 milioni di euro (https://bit.ly/2TJ7ERm). 
Non commentiamo. 

Studio dell'Istituto superiore di sanità su Covid-19

Luciano Muhlbauer, “Il coronavirus e la società che verrà”

Gianni Tognoni, “Il coronavirus è un problema sanitario, non una guerra”

Edoardo Bai, “Corona virus: un problema sanitario”

Giorgio Agamben, “L’invenzione di un’epidemia”

Giovanna Procacci, “Qual è la vera epidemia, Noi e gli altri”

“Quanti sono i virus dei mammiferi” 

1 commento:

  1. I milioni di dosi di vaccino acquistate e inutilizzate (certo, poi scadono, come tutti i farmaci) nel caso dell'influenza suina sono forse un esempio positivo della lungimiranza delle autorità: in tanti altri casi ci si è lamentati della mancanza dei vaccini. Ma sono costati molto! E certo, e allora? Come ci sono i costi della politica, ci sono i costi della sanità. Vogliamo assumere il criterio oggi in voga di porre al primo posto la lotta agli sprechi, quando ci sono le vite in ballo? Ma le multinazionali ci guadagnano! Certo, e dove dovremmo comprarli? E allora non compriamo i vaccini? Se si vuole fare una campagna contro il conflitto di interessi dovuto al fatto che funzionari dell'Organizzazione mondiale della sanità siano ammanicati con l'industria farmaceutica, sono d'accordo e credo che ciò dovrebbe essere impedito, ma la scelta di questo periodo per agitare il problema mi sembra eccezionalmente intempestivo!
    Un conto è discutere le proposte di intervento con 10 comuni e un conto con tutta l'Italia. Questo problema sanitario poi non è stato pretesto di nessuno scontro politico: il parlamento ha votato all'unanimità (un solo astenuto: Vittorio Sgarbi) le misure economiche, Fontana ha lodato il ministro Speranza, Salvini ha abbassato i toni, una cosa mai vista. Del resto Piero Basso sottolinea le "poche voci critiche", preoccupato che non ce ne siano di più. Altro che scontro politico! Per ultimo, nello stesso articolo si ammette alla fine che ci sia l'unità nazionale. Se in Italia si azzerassero le morti per incidenti stradali (3334 nell'ultimo anno), ciò sarebbe considerato un successo senza pari. Forse lo sarebbe anche eliminare le 3900 (ieri salite a 4641) morti per coronavirus.

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