Raniero La Valle
Il governo Monti, pur sostenuto dalle stesse forse che avevano sostenuto il precedente governo Berlusconi, si presenta in netta discontinuità
Il governo Monti, pur sostenuto dalle stesse forse che avevano sostenuto il precedente governo Berlusconi, si presenta in netta discontinuità
Due atti recenti del governo Monti ne definiscono la natura più di ogni altra cosa; l'uno era un atto in qualche modo dovuto, il rifiuto delle Olimpiadi a Roma, l'altro era imprevedibile, e perciò tanto più significativo, la richiesta da parte dell'avvocato dello Stato, parte civile nel processo per la corruzione di Mills, di un risarcimento di 250.000 euro da parte di Silvio Berlusconi per il discredito arrecato col suo comportamento alla Presidenza del Consiglio. Questo secondo evento segna la netta discontinuità del governo Monti rispetto a quello precedente, nonostante esso sia appoggiato dallo stesso partito dell'ex presidente di cui si chiede la condanna. La discontinuità sta in questo, che al di là delle parole vellutate con cui Monti lusinga il suo predecessore, il Palazzo Chigi di oggi chiede i danni al Palazzo Chigi di ieri; e qui non c'è il preteso accanimento della magistratura milanese, qui c'è lo Stato che si dichiara parte lesa riguardo a chi lo ha governato per tanti anni. E' una liquidazione politica, non la sentenza per un reato.
Il primo evento invece, il rifiuto delle Olimpiadi, era un atto dovuto perché infilarsi spensieratamente in un vortice di spese sarebbe stato un colpo mortale all'ideologia del sacrificio, della rinuncia e del pareggio di bilancio, che sembra il punto d'arrivo del capitalismo realizzato all'ora della sua crisi. Ed era dovuto anche perché il governo non avrebbe potuto farsi perdonare dal potere militare la rinunzia a 41 caccia F 35 e il benservito a una quantità di ammiragli e generali, né avrebbe potuto farsi perdonare dalla Chiesa l'imposizione dell'ICI sugli edifici o parti di edifici dediti ad “attività commerciali”, né avrebbe potuto giustificare ai giornali fatti chiudere il taglio dei fondi all'editoria, e molte altre cose, se nel contempo avesse mostrato una propensione a dilapidare denaro pubblico in giochi e strutture sportive destinate a servire una sola estate.
Anche qui la discontinuità dal precedente governo si è manifestata in maniera clamorosa; infatti quel governo sarebbe stato pronto ad affidare a Bertolaso e alla Protezione civile la realizzazione del “grande evento” al di fuori di ogni regola e controllo, e a prescindere dall'uso effettivo delle opere realizzate: come accadde alla Maddalena dove le sontuose opere messe su per il vertice dei Grandi furono abbandonate, perché si potesse allestire un nuovo “evento”, tutto mediatico, nell'Aquila del terremoto, della quale non si avviò peraltro nemmeno la rimozione delle macerie.
Tra le ragioni addotte per lodare la decisione del governo sulle Olimpiadi, c'è anche quella secondo cui in tal modo si sarebbero evitate chissà quali corruzioni e infiltrazioni mafiose; ma guai se questo fosse stato il motivo, perché allora per evitare i reati bisognerebbe semplicemente smettere di vivere.
Più delicata è la questione del significato ultimo del gran rifiuto governativo: si tratta solo di evitare in questo caso lo spreco di una spesa non necessaria, oppure è il messaggio di uno Stato che rinuncia ad ogni investimento, si preclude ogni intervento in campo economico, si ritira da tutto, un po' come è accaduto a Roma che nell'emergenza è stata “chiusa per neve”, senza più mezzi pubblici, scuole, uffici? La necessaria austerità economica, il salutare riordinamento dei conti pubblici stanno diventando in effetti in tutta Europa il paravento dietro il quale si gioca una partita che riguarda la figura stessa dello Stato; i predicatori del “più società meno Stato”, dello “Stato minimo”, i sostenitori del monopolio privato dell'economia, i denigratori della politica, i liberalizzatori a oltranza, gli odiatori del fisco sentono arrivato il loro momento, come se fosse a portata di mano una vittoria irreversibile: il processo di restaurazione dello Stato liberale nella sua versione fondamentalista - legge e ordine a garanzia del libero gioco dei ricchi nei mercati - potrebbe oggi trovare il suo compimento. Ciò che nei singoli Stati non era stato possibile per la resistenza opposta dai movimenti sociali e dalle Costituzioni, può oggi realizzarsi nel quadro di un capitalismo elevato a regime istituzionale e politico a livello europeo, dove il potere, sovrano in quanto unico a battere moneta, è esercitato in uno spazio dove la democrazia non arriva, il controllo popolare e rappresentativo non esiste, e la voce dei movimenti non giunge se non per gli echi delle proteste disperate che si scatenano nelle piazze più colpite.
La questione che ora si è aperta è se e come sia possibile, nella nuova situazione, una economia democratica. Lo Stato repubblicano uscito dalla Costituente del '47 aveva risolto il problema attribuendosi il compito di rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che di fatto limitano o impediscono la libertà, l'eguaglianza, lo sviluppo delle persone e la partecipazione democratica dei cittadini, intesi come lavoratori. Uno Stato liberale non fa queste cose non perché non ha i soldi, ma perché non vuole farle e ritiene sbagliato che si facciano. Dunque il problema non è di passare dall'austerità alla crescita, ma di tornare all'economia democratica, di scegliere tra il governo del denaro e il governo degli uomini.
Il primo evento invece, il rifiuto delle Olimpiadi, era un atto dovuto perché infilarsi spensieratamente in un vortice di spese sarebbe stato un colpo mortale all'ideologia del sacrificio, della rinuncia e del pareggio di bilancio, che sembra il punto d'arrivo del capitalismo realizzato all'ora della sua crisi. Ed era dovuto anche perché il governo non avrebbe potuto farsi perdonare dal potere militare la rinunzia a 41 caccia F 35 e il benservito a una quantità di ammiragli e generali, né avrebbe potuto farsi perdonare dalla Chiesa l'imposizione dell'ICI sugli edifici o parti di edifici dediti ad “attività commerciali”, né avrebbe potuto giustificare ai giornali fatti chiudere il taglio dei fondi all'editoria, e molte altre cose, se nel contempo avesse mostrato una propensione a dilapidare denaro pubblico in giochi e strutture sportive destinate a servire una sola estate.
Anche qui la discontinuità dal precedente governo si è manifestata in maniera clamorosa; infatti quel governo sarebbe stato pronto ad affidare a Bertolaso e alla Protezione civile la realizzazione del “grande evento” al di fuori di ogni regola e controllo, e a prescindere dall'uso effettivo delle opere realizzate: come accadde alla Maddalena dove le sontuose opere messe su per il vertice dei Grandi furono abbandonate, perché si potesse allestire un nuovo “evento”, tutto mediatico, nell'Aquila del terremoto, della quale non si avviò peraltro nemmeno la rimozione delle macerie.
Tra le ragioni addotte per lodare la decisione del governo sulle Olimpiadi, c'è anche quella secondo cui in tal modo si sarebbero evitate chissà quali corruzioni e infiltrazioni mafiose; ma guai se questo fosse stato il motivo, perché allora per evitare i reati bisognerebbe semplicemente smettere di vivere.
Più delicata è la questione del significato ultimo del gran rifiuto governativo: si tratta solo di evitare in questo caso lo spreco di una spesa non necessaria, oppure è il messaggio di uno Stato che rinuncia ad ogni investimento, si preclude ogni intervento in campo economico, si ritira da tutto, un po' come è accaduto a Roma che nell'emergenza è stata “chiusa per neve”, senza più mezzi pubblici, scuole, uffici? La necessaria austerità economica, il salutare riordinamento dei conti pubblici stanno diventando in effetti in tutta Europa il paravento dietro il quale si gioca una partita che riguarda la figura stessa dello Stato; i predicatori del “più società meno Stato”, dello “Stato minimo”, i sostenitori del monopolio privato dell'economia, i denigratori della politica, i liberalizzatori a oltranza, gli odiatori del fisco sentono arrivato il loro momento, come se fosse a portata di mano una vittoria irreversibile: il processo di restaurazione dello Stato liberale nella sua versione fondamentalista - legge e ordine a garanzia del libero gioco dei ricchi nei mercati - potrebbe oggi trovare il suo compimento. Ciò che nei singoli Stati non era stato possibile per la resistenza opposta dai movimenti sociali e dalle Costituzioni, può oggi realizzarsi nel quadro di un capitalismo elevato a regime istituzionale e politico a livello europeo, dove il potere, sovrano in quanto unico a battere moneta, è esercitato in uno spazio dove la democrazia non arriva, il controllo popolare e rappresentativo non esiste, e la voce dei movimenti non giunge se non per gli echi delle proteste disperate che si scatenano nelle piazze più colpite.
La questione che ora si è aperta è se e come sia possibile, nella nuova situazione, una economia democratica. Lo Stato repubblicano uscito dalla Costituente del '47 aveva risolto il problema attribuendosi il compito di rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che di fatto limitano o impediscono la libertà, l'eguaglianza, lo sviluppo delle persone e la partecipazione democratica dei cittadini, intesi come lavoratori. Uno Stato liberale non fa queste cose non perché non ha i soldi, ma perché non vuole farle e ritiene sbagliato che si facciano. Dunque il problema non è di passare dall'austerità alla crescita, ma di tornare all'economia democratica, di scegliere tra il governo del denaro e il governo degli uomini.
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