Bastano pochi giorni perché l’intervento “umanitario” della NATO si trasformi in guerra aperta contro il governo di Gheddafi. Le indagini sul campo smentiscono le versioni ufficiali
Credevo di avere imparato quanto poco contano le parole dei potenti, invece ci sono cascato un’altra volta. Nel marzo scorso rilanciavo un articolo di Farid Adly a favore dell'insurrezione libica e dell'intervento occidentale per una "no fly zone", cioè un'azione volta a impedire all'aviazione libica di massacrare gli insorti. In quell'occasione manifestavo due riserve, sulle armi in mano ai ribelli (a cui Farid risponde: Loro [il Consiglio Nazionale di Transizione Libico] chiedono una protezione internazionale della popolazione civile. Sono fortemente contrari all'intervento straniero), e, più grave, lo scatenamento della caccia agli immigrati dall'Africa nera (una reazione, scrive Farid, sbagliatissima e da condannare fermamente).
Bastano pochi giorni e l'intervento "umanitario" a protezione dei civili si trasforma in una guerra aperta della NATO contro il governo libico, con bombardamenti indiscriminati, forniture di armi e di informazioni ai ribelli (e, a quanto pare, anche di istruttori militari). In novembre, il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, dichiara: “Abbiamo condotto le operazioni (i sette mesi di bombardamenti sulla Libia) con estrema cura, senza nessuna vittima civile”. Anche in questo caso il New York Times conduce un'indagine intervistando sopravvissuti, medici, testimoni e raccogliendo fotografie, certificati, resti di bombe, documentando in modo incontrovertibile l’uccisione di almeno 40 civili nei bombardamenti, spesso donne o bambini che dormivano, solo in una piccola parte dei numerosi siti bombardati. A questo punto, come al solito, il portavoce NATO cambia tono: "Siamo molto rammaricati che, malgrado la nostra attenzione e precisione, si siano potute verificare morti o ferimenti di civili innocenti".
Naturalmente la stampa italiana, con poche eccezioni (ma adesso riusciranno a chiudere anche le ultime eccezioni), non si accorge di nulla e sguazza nel suo entusiasmo bellicista. In settembre il più filo-NATO di tutti, la Repubblica, pubblica un lucidissimo articolo di Guido Rampoldi, che però non muta la linea del giornale. Già allora Rampoldi denuncia le rappresaglie sanguinarie delle milizie anti-Gheddafi e la manipolazione delle immagini.
A fine gennaio Navi Pillay, alto commissario per i diritti umani delle NN.UU., denuncia le detenzioni illegali, le torture e le uccisioni perpetrate dalle milizie libiche contro veri o presunti partigiani di Gheddafi. Secondo l'ONU sono almeno 8.000 i prigionieri sotto tortura, particolarmente lavoratori africani, ritenuti tutti mercenari di Gheddafi (un numero superiore a quello di tutti i civili siriani uccisi nella repressione). Médecins sans frontières ha ritirato la sua équipe medica da Misurata perché i prigionieri venivano portati da loro solo per essere messi in condizione di poter subire nuove torture.
E, titola il NYT il 9 febbraio, la Libia vacilla sotto il peso delle milizie. Ma il paese del baciamano a Gheddafi continua a guardare dall'altra parte.
Bastano pochi giorni e l'intervento "umanitario" a protezione dei civili si trasforma in una guerra aperta della NATO contro il governo libico, con bombardamenti indiscriminati, forniture di armi e di informazioni ai ribelli (e, a quanto pare, anche di istruttori militari). In novembre, il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, dichiara: “Abbiamo condotto le operazioni (i sette mesi di bombardamenti sulla Libia) con estrema cura, senza nessuna vittima civile”. Anche in questo caso il New York Times conduce un'indagine intervistando sopravvissuti, medici, testimoni e raccogliendo fotografie, certificati, resti di bombe, documentando in modo incontrovertibile l’uccisione di almeno 40 civili nei bombardamenti, spesso donne o bambini che dormivano, solo in una piccola parte dei numerosi siti bombardati. A questo punto, come al solito, il portavoce NATO cambia tono: "Siamo molto rammaricati che, malgrado la nostra attenzione e precisione, si siano potute verificare morti o ferimenti di civili innocenti".
Naturalmente la stampa italiana, con poche eccezioni (ma adesso riusciranno a chiudere anche le ultime eccezioni), non si accorge di nulla e sguazza nel suo entusiasmo bellicista. In settembre il più filo-NATO di tutti, la Repubblica, pubblica un lucidissimo articolo di Guido Rampoldi, che però non muta la linea del giornale. Già allora Rampoldi denuncia le rappresaglie sanguinarie delle milizie anti-Gheddafi e la manipolazione delle immagini.
A fine gennaio Navi Pillay, alto commissario per i diritti umani delle NN.UU., denuncia le detenzioni illegali, le torture e le uccisioni perpetrate dalle milizie libiche contro veri o presunti partigiani di Gheddafi. Secondo l'ONU sono almeno 8.000 i prigionieri sotto tortura, particolarmente lavoratori africani, ritenuti tutti mercenari di Gheddafi (un numero superiore a quello di tutti i civili siriani uccisi nella repressione). Médecins sans frontières ha ritirato la sua équipe medica da Misurata perché i prigionieri venivano portati da loro solo per essere messi in condizione di poter subire nuove torture.
E, titola il NYT il 9 febbraio, la Libia vacilla sotto il peso delle milizie. Ma il paese del baciamano a Gheddafi continua a guardare dall'altra parte.
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