23 febbraio 2012

Una riflessione sull'art. 18

Si dice che licenziamenti più facili favorirebbero nuove assunzioni, tuttavia un rapporto sulla competitività dei diversi paesi evidenzia che altri sono i fattori che rendono l’Italia un paese poco appetibile per gli investitori


Si parla molto di riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che prevede, solo per le unità produttive di oltre 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo, non un semplice compenso monetario, ma il reintegro nel posto di lavoro. Una norma, quindi, che permette il licenziamento dei lavoratori quando questo sia giustificato, per esempio perché si riducono le commesse, ma non permette i licenziamenti arbitrari, per esempio di un sindacalista.
I sostenitori della riforma, o della pura e semplice abrogazione di questa norma, sostengono che rendendo più facili i licenziamenti le aziende sarebbero più propense ad assumere. L’affermazione non mi pare convincente, ed anzi vagamente ricattatoria, ma non ho le conoscenze e la competenza per parlarne.
Desidero però richiamare la vostra attenzione su una contraddizione eclatante nel discorso dei nemici dell'art. 18. Mentre Confindustria, Governo, mezzi di comunicazione, martellano incessantemente sulla necessità di una riforma del mercato del lavoro per consentire la ripresa economica del paese, quando parlano tra loro, lontano dagli occhi e dalle orecchie dell'opinione pubblica, dicono esattamente il contrario.
Devo a un giornalista coraggioso, Paolo Barnard, la segnalazione del rapporto del Forum economico mondiale sulla competitività dei diversi paesi. Il rapporto (The global competitiveness report, 2010-2011; potete scaricarlo da http://www3.weforum.org/docs/WEF_GlobalCompetitivenessReport_2010-11.pdf) contiene una quantità di informazioni interessanti: per esempio leggiamo che il reddito medio italiano è stato a lungo uguale al reddito medio dell'insieme dei paesi sviluppati, mentre si è molto ridotto rispetto a questo per tutto il ventennio berlusconiano. 
Quello che ci interessa però notare è che l'Italia si situa solo al 48° posto tra le economie mondiali come paese dove fare investimenti, dopo tutti i paesi dell'Europa occidentale e molti paesi asiatici. E quali sono i fattori che, secondo gli imprenditori, rendono così poco appetibile investire nel nostro paese? Forse la rigidità nel mercato del lavoro? No certo. Al primo posto viene l'inefficienza della burocrazia governativa, al secondo la difficoltà nell'accesso al credito, poi la normativa fiscale, l'inadeguatezza delle infrastrutture...e solo al sesto posto viene la rigidità del mercato del lavoro, poco sopra la corruzione.
E negli altri paesi? Ho preso in considerazione cinque paesi dell'Europa occidentale, dalla Svizzera (al primo posto: un vero paradiso per gli investitori) alla Francia (15° posto), passando per la Svezia, la Germania e la Finlandia: in tutti questi la rigidità del mercato del lavoro è indicata al primo o al secondo posto tra gli ostacoli al business. Evidentemente dove lo Stato funziona, dove un paese funziona, dove lo Stato fornisce un ambiente di sicurezza sociale, di stabilità della forza lavoro e di benessere generali, anche gli investimenti sono garantiti e fruttano al massimo. Di questo dovrebbe occuparsi il nostro governo.

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