30 dicembre 2022

Dicembre 1992: in marcia per la pace

Agostino Zanotti

L’assedio di Sarajevo, città multietnica, multireligiosa, aperta e tollerante, da parte delle milizie nazionaliste serbe, rappresenta una delle pagine più drammatiche delle guerre che nell'ultimo decennio del secolo scorso hanno insanguinato e portato alla dissoluzione della Jugoslavia.
Nel dicembre del 1992 alcune centinaia di persone, su iniziativa dei Beati costruttori di pace, vollero portare nella città assediata una testimonianza di solidarietà.
Tra loro Agostino Zanotti che iniziò allora un impegno di solidarietà con le popolazioni bosniache mai venuto meno, anche dopo l'attentato del 29 maggio '93 che costò la vita a tre volontari italiani, Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni, da cui Agostino e un suo compagno riuscirono a salvarsi grazie a molto coraggio e a una grande presenza di spirito. Ecco il suo racconto



All’imbarco il tempo, intendo quello meteorologico, si preannunciava minaccioso, avremmo sicuramente trovato il mare in burrasca, ma nessuno si sarebbe aspettato un mare forza 8 con onde superiori ai 10 metri e un’attraversata da Ancora a Spalato durata 24 ore. 
Il gruppo dei 500, che aveva risposto all’appello di don Albino Bizzotto dei Beati Costruttori di Pace per una marcia su Sarajevo, si era dato una prima regola, affrontare il viaggio “passo dopo passo”, ognuno poteva decidere in qualsiasi momento di fermarsi o andare avanti. Alcuni si fermarono a Spalato dopo che le autorità del posto, Governo Italiano e Nazioni Unite ci invitarono a desistere dal proseguire.
L’idea della marcia era di per sé ambiziosa, forse anche un po’ folle, entrare a Sarajevo sotto assedio da oltre otto mesi partendo da Spalato, percorrendo circa 250 chilometri tra una linea del fronte e l’altra con 13 pullman e due ambulanze.
Nonostante tutte le autorizzazioni e i buoni propositi, la posta in gioco era molto alta e il rischio di diventare bersaglio per qualche ritorsione non del tutto infondato.
La tappa successiva fu nella cittadella di Kiseljak a circa 30 chilometri da Sarajevo; partecipammo ad un momento pubblico con la cittadinanza e sentimmo, per la prima volta, la vicinanza ai “rumori” della guerra per via delle raffiche di kalashnikov che risuonavano nell’aria. Oltre a “passo dopo passo”, l’altra regola era quella che le decisioni si dovevano prendere col metodo del consenso, e per tale ragione ci eravamo suddivisi, ancora prima della partenza, in gruppi di affinità ciascuno con un proprio leader o portavoce. Io facevo parte del gruppo “Laici per la pace” e ne ero il portavoce/leader. Tra di noi c’era anche Piero Basso, attento osservatore di quanto ci accadeva intorno, puntuale interprete dello spirito della marcia e indispensabile consigliere. 
L’assemblea generale, che si era riunita per diverse ore, prese la decisione di andare avanti, lasciando a Kiseljak altri viaggiatori che non intendevano proseguire. Partiti da Ancona il 7 dicembre sera, l’11 dicembre decidemmo di partire da questa cittadina. A breve saremmo entrati nel territorio controllato dall’ esercito serbo-bosniaco; fino ad allora avevamo attraversato un territorio controllato principalmente dalle forze croato- bosniache e bosniacche a quel tempo alleate.
Fummo costretti ad una lunga sosta alle porte di Ilidža dovuta ad una trattativa tra gli organizzatori e le rappresentanze militari, un gruppo di viaggiatori rimarrà lì per testimoniare le sofferenze anche della parte serbo bosniaca e una delle ambulanze verrà lasciata in dono all’ospedale da campo.
Finalmente alle 5 del pomeriggio entriamo a Sarajevo, nell’aria echeggiano alcuni colpi di arma da fuoco, è buio e la città si presenta spettrale. Dal finestrino vedo solo case e palazzi bui, molte macerie, poche persone per la strada, solo una coppia di innamorati attira la mia attenzione. Che fanno in giro, mano nella mano, in una città deserta e minacciosa?
Ci fermiamo nei pressi del palazzo comunale di Sarajevo centro e veniamo ospitati in un liceo a pochi metri di distanza. Il palazzo è completamente senza finestre, senza acqua, nessuna luce, fa freddo, pochi riescono a dormire.
Al mattino presto i ragazzi e le ragazze del liceo hanno preparato del tè caldo e del pane, un gesto che mi rimarrà nella memoria: per prendere quell’acqua e quel pane avevano rischiato la vita. Un dono che aveva il sapore di un generoso e coraggioso ringraziamento.
Siamo pronti per attraversare le vie di Sarajevo, ci riversiamo sulla Maršala Tita fino ad arrivare in Baščaršija.
Un’emozione unica, lacrime, abbracci, sorrisi e tanta incredulità da parte dei cittadini di Sarajevo che, affacciati alle finestre o per strada, ci ringraziano per essere lì, con loro, per non farli sentire soli. Qualcuno aveva avuto il coraggio di sfidare la guerra con i propri corpi, con le proprie paure, con le proprie convinzioni religiose o politiche. L’immagine era quella di una umanità solidale, forse un po' raffazzonata, ma profondamente convinta che doveva esserci un’alternativa alla voce delle armi, alla militarizzazione come più volte ripetuto da Monsignor Tonino Bello, tra le figure di spicco della marcia.
Nel tardo pomeriggio, dopo vari incontri istituzionali, ma anche con la popolazione assediata, prendiamo la via del ritorno. Mentre stiamo uscendo dalla città veniamo fermati per un controllo dei pullman, non dovevano esserci civili sarajevesi con noi. I mezzi vengono ispezionati dai miliziani serbo bosniaci, i militari che salgono per l’ispezione non sembrano collaborativi, per giunta sono ben armati e per niente amichevoli.
Solo allora mi rendo conto che in realtà della guerra non avevamo visto nulla, che ci lasciavamo alle spalle una città in preda a soldati senza scrupoli, che il nostro gesto sarebbe stato una breve pausa dentro una tragedia di dimensioni enormi e non ancora del tutto conosciute.
Era il 13 dicembre del 1992 e rientravamo in Italia. In tutta la Jugoslavia, oramai ex, la guerra prendeva il sopravvento col suo carico di pulizia etnica, stupro etnico, dolori e sofferenze ovunque, fosse comuni, città distrutte, migliaia di morti e la più grande tragedia nel cuore dell’Europa: Srebrenica. I nazionalismi mostravano la loro vera faccia, un punto di non ritorno per qualsiasi stato e soprattutto per l’Europa che pensava di poterne uscire indenne.
Sono passati trent’anni da allora, ma non è questione di tempo, è questione che nel frattempo gli accordi di Dayton tengono in essere un ossimoro, la democrazia in chiave etnica, alimentando velleità nazionalistiche e populiste. Non è questione di tempo se la storia è stata un susseguirsi di errori, di tragedie, di violenze e di costruzione di un pensiero unico bellicista che ha portato a nuove guerre. Se ancora oggi, di nuovo in Europa, un altro conflitto imperversa con lo stesso carico di tragedie umane, con la stessa narrazione mediatica di allora che non lascia spazio al pensiero pacifista e nemmeno al pensiero critico.
La questione è che se ci eravamo impegnati a “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” , quante future generazioni dovranno ancora passare perché si capisca che in guerra non ci sono né vinti né vincitori, ma è tutta l’umanità che ne esce sconfitta. Il ripudio della guerra non è soltanto un principio costituzionale, è anche l’unico mezzo per la risoluzione dei conflitti.

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