14 ottobre 2022

Ucraina: uno sguardo equilibrato (prima parte)

Uno sguardo equilibrato (che non vuol dire equidistante) sulla guerra in corso, apparentemente tra Ucraina e Russia, è quello che abbiamo cercato di mantenere preparando questo piccolo dossier.
Un’impresa non facile, dovendo muoverci tra due narrazioni contrapposte, entrambe molto piegate alle necessità della propaganda.
La ricerca dell’obiettività nell’esposizione dei fatti e nel tentativo di spiegarli non esclude una chiara scelta di campo: siamo fermamente al fianco di tutte le vittime di questa guerra, prima di tutti il popolo ucraino, e siamo contro la guerra, contro tutte le guerre, che, come già scriveva, con straordinaria lucidità, alla vigilia della prima guerra mondiale, il poeta romano Trilussa, non fanno che “preparare le risorse per i ladri delle borse”. E questo conflitto ce ne sta già dando numerosi esempi.



Ninna nanna della guerra
di Carlo Alberto Camillo Salustri (Trilussa)
Versione raccolta da Cesare Bermani, pubblicata in “Avanti popolo”, a cura dell’Istituto Ernesto De Martino, Ricordi, Roma, 1998

Ninna nanna piglia sonno
Che se dormi non vedrai
Tante infamie e tanti guai
Che succedono nel mondo
Tra le spade e li fucili
Delli popoli civili
Ninna nanna tu non senti
Li sospiri e li lamenti
Della gente che si scanna
Per un pazzo che comanda
Che si scanna, che s’ammazza
A vantaggio di una razza
A profitto di una fede
Per un dio che non si vede
Ma che serve da riparo
Al sovrano macellaro
Ché quel covo di assassini
Che ci insanguina la terra
Sa benone che la guerra
E’ un gran giro di quattrini
Che prepara le risorse
Per i ladri delle borse
Fa la nanna cocco bello
Sinché dura sto macello
Fai la nanna che domani
Rivedremo li sovrani
Che si scambiano la stima
Buoni amici come prima
Son cugini, e tra parenti
Non si fanno complimenti
Torneranno  più cordiali
I rapporti personali
E riuniti tra di loro
Senza l’ombra di un rimorso
Ci faranno un bel discorso
Sulla pace e sul lavoro
Per quel popolo coglione
Risparmiato dal cannone



1. Ucraina e Russia
Russi e Ucraini sono due popoli uniti, ma anche differenziati, da una comune cultura, storia, lingua, fede religiosa. 
Il nome Rus appare per la prima volta attribuito al territorio attorno a Kiev, abitato da una popolazione slava cristianizzata da San Vladimiro sul finire del primo millennio. Il principato di Kiev fiorisce per un paio di secoli sino all’invasione tatara (mongola) nella prima metà del duecento.
Tra il tre e il quattrocento, all’indebolimento del dominio tataro (l'“Orda d’Oro”), corrisponde lo sviluppo di principati “russi” (a Novgorod, a Mosca), mentre la maggior parte del territorio dell’attuale Ucraina (u kraj, terra di confine), assai appetibile per la sua grande fertilità, è dominato dai grandi feudatari lituani e polacchi, con alcune durature conseguenze sulla lingua (mentre la lingua ufficiale del granducato di Lituania è il bielorusso, una lingua parlata ucraina si sviluppa dall’antico russo di Kiev, con numerosi vocaboli ed espressioni di origine polacca), sulle scelte religiose (con l’abbandono del cattolicesimo praticato dalle élite dominanti) e sul piano sociale, con l’introduzione del servaggio e la fuga di numerosi contadini verso le zone periferiche alle foci del Dniepr.
Ed è proprio da questi Cosacchi (dal turco Kazak, avventurieri, uomini liberi), contadini fuggiti dai loro signori polacchi, che partono le grandi ribellioni e la rivendicazione di autonomia: a metà del ’600, dopo anni di guerriglia contro i polacchi, i cosacchi chiedono l’aiuto di Mosca (divenuta, con le conquiste di Ivan IV il Terribile, capitale dell’impero russo), e la guerra risultante si conclude con la spartizione dell’Ucraina: a est del Dniepr la Russia, a ovest la Polonia.
Mezzo secolo dopo le parti si rovesciano: i cosacchi si alleano con la Svezia, in guerra contro la Russia. La sconfitta degli svedesi pone fine al sogno indipendentista cosacco e quasi tutta l’Ucraina passa sotto il dominio russo.
L’ultima grande ribellione cosacca risale alla fine del ’700: sotto la guida di Emiliano Pugaciov, un’armata di cosacchi gelosi delle proprie autonomie, di contadini ansiosi di liberarsi dalla servitù, di popolazioni autoctone timorose del processo di russificazione, riuscì, con alterne vicende, a tenere in scacco l’esercito imperiale per più di un anno, conquistando Kazan e altre città, sino alla sconfitta finale nel 1774.
Nella seconda metà dell’800 inizia un periodo di industrializzazione e di sviluppo economico, favorito anche dalle risorse minerarie del Donbass (il bacino del fiume Donetsk nell’est dell’Ucraina) e dall’afflusso di manodopera dalle campagne, dopo che nel 1861 venne abolita la servitù della gleba.
Alla vigilia della prima guerra mondiale l’Ucraina è in gran parte inglobata nell’impero russo, a eccezione delle regioni sud-occidentali (Galizia, Bucovina, Bessarabia) facenti parte dell’impero austriaco.
La rivoluzione del 1917 spacca la società ucraina lungo linee “di classe” (rossi contro bianchi), ma presenta anche un’opportunità per i nazionalisti che nel 1917 proclamano, a Kiev, la “repubblica democratica indipendente ucraina”, mentre a Kharkov (oggi Kharkiv), la seconda città del paese, gli operai rispondono costituendo la “repubblica sovietica dell’Ucraina”. Seguono anni di caos politico e militare, che vedono combattersi sul suolo ucraino eserciti stranieri, indipendentisti ucraini, armata rossa, truppe bianche del generale Denikin, e che si concludono con l’annessione all’Unione sovietica di gran parte dell’attuale Ucraina.
Nel 1928-29 inizia la collettivizzazione forzata delle terre, ostacolata da molti grandi (e piccoli) proprietari, che portò a un crollo della produzione agricola e a una devastante carestia, che, unita a un’epidemia di tifo, causò la morte per fame di milioni di persone in tutta l’Unione sovietica (ufficialmente, in Ucraina, i morti furono 1,5 milioni, probabilmente il doppio). Questa tragedia alimentò il risentimento e l’odio anti-sovietico, e più genericamente antirusso, tra i nazionalisti ucraini, e diede i suoi frutti avvelenati durante la guerra.
Nel 1929, a Vienna, alcuni esuli formano l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN) che propugna un’ideologia di tipo fascista (tra cui la purezza e la superiorità della razza ucraina). Allo scoppio della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione tedesca dell’Ucraina, l’ala più radicale del movimento, guidata da Stepan Bandera, si allea con gli occupanti e fornisce i quadri per l’amministrazione civile e per le milizie armate filonaziste.
La collaborazione con gli occupanti non si ferma anche se lo stesso Bandera viene detenuto per lunghi periodi per i suoi tentativi di costituire un governo ucraino indipendente, sia pure alleato della Germania nazista. Le milizie collaborazioniste presero parte attiva praticamente a tutti i massacri nazisti, di ebrei, rom, polacchi, comunisti, prigionieri di guerra sovietici, partigiani, a Babi Yar, Leopoli, Odessa; addirittura, in Galizia (mai stata russa, ma prima austriaca e poi polacca) gli Ucraini costituirono un battaglione di SS, il Galitzien Waffen SS.
Nel 1945 l’Ucraina sovietica realizza, per la prima volta nella storia, l’unità politica di tutti i territori popolati da ucraini, annettendo alle province centrali e orientali le regioni (elencate procedendo da nord-ovest verso sud e sud-est): Volinia (Russia dal 1795, Polonia dal 1918); Galizia (Austria dal 1772, Polonia dal 1918); Transcarpazia (Ungheria dal 1896, Cecoslovacchia dal 1918); Bucovina settentrionale (Austria dal 1774, Romania dal 1918); Bessarabia (Russia dal 1812, Romania dal 1918).
L’ultima acquisizione territoriale dell’Ucraina, questa volta a oriente, avviene nel 1954, quando il Soviet supremo dell’URSS, considerando la contiguità territoriale e la complementarietà economica tra Ucraina e Crimea, trasferisce quest’ultima (abitata quasi esclusivamente da russi dopo la deportazione staliniana di gran parte della popolazione tatara, accusata di collaborazionismo con gli occupanti tedeschi) dalla repubblica socialista sovietica russa alla repubblica socialista sovietica ucraina.
Una semplice scelta amministrativa destinata ad avere pesanti conseguenze settant’anni più tardi.

2. La fine dell’URSS
Tra il settembre del 1989 (caduta del muro di Berlino) e il dicembre del 1991 (dimissioni di Gorbaciov e dissoluzione dell’URSS) si consuma la fine dell’esperienza del cosiddetto “socialismo reale”.
Per alcuni questo significò la speranza che, finita la falsa identificazione tra l’ideale socialista e il regime sovietico, il primo potesse tornare a dispiegare i suoi ideali di giustizia e libertà guidando l’umanità fuori del baratro delle guerre e delle disuguaglianze.
Per altri, incapaci di pensare al socialismo come qualcosa di ben più ampio del pedissequo allineamento al blocco sovietico, significò l’abbandono di ogni ideale socialista e una conversione a 180 gradi ai miti del capitalismo.
Altri ancora, i vincitori della guerra fredda, interpretarono gli eventi come la fine di ogni possibile ipotesi alternativa di società (la “fine della storia”) e come garanzia imperitura di un dominio assoluto sul mondo.
Il 31 dicembre del 1991 l’Ucraina, e le altre repubbliche ex-sovietiche, divengono indipendenti.
A livello di equilibri politici internazionali la dissoluzione dell’URSS e la nascita di quindici repubbliche indipendenti avviene senza traumi perché c’è un tacito accordo tra Gorbaciov e l’Occidente, che si impegna a non creare turbamenti all’interno di questi paesi, molti dei quali si ritrovarono poi in un’alleanza dominata da Mosca, la CSI, Comunità di Stati Indipendenti.
In questo quadro, nel 1994 viene firmato il Memorandum di Budapest, in base al quale l’Ucraina cede a Mosca l’intero armamento nucleare sovietico stanziato sul suo territorio, in cambio di assicurazioni circa la propria sicurezza, indipendenza e integrità territoriale.

Nel 1997 furono siglati il Trattato di amicizia russo-ucraino e il Trattato di divisione della flotta del Mar Nero in base al quale Russia e Ucraina hanno costituito due flotte nazionali indipendenti, consentendo l’uso della base navale di Sebastopoli anche alla flotta russa del Mar Nero. Nel 2010 l’accordo viene rinnovato fino al 2042.
Un ampio panorama sull’evoluzione dei rapporti tra Russia e Stati Uniti si trova nel successivo capitolo 5. 
E’ all’interno dei singoli paesi nati dalla dissoluzione dell’Unione sovietica che gli effetti della fine di quella esperienza si fanno sentire in modo drammatico.
Sotto la spinta internazionale e interna per un rapido passaggio a un’economia di mercato cui non erano minimamente preparati, questi paesi precipitano in una gravissima crisi economica, sociale e demografica che neppure possiamo immaginare (si riducono fortemente la speranza di vita, soprattutto per gli uomini, e la natalità). [1]
Nella fase confusa dei primi mesi dei nuovi regimi la parola d’ordine è “privatizzare”, e in assenza di qualunque norma di comportamento e di tutela del patrimonio pubblico, i beni dello stato vengono accaparrati dalle élite (essenzialmente funzionari governativi o di partito), che in poco tempo accumulano grandi ricchezze e potere, mentre da un giorno all’altro milioni di persone si sono trovate senza lavoro, senza pensione, senza nessuna possibilità di provvedere ai bisogni primari propri e delle famiglie.
La ripresa da questo trauma ha modi e tempi diversi nelle diverse repubbliche. In un interessante articolo apparso alla vigilia dell’attacco russo su Difesa Online, testata giornalistica specializzata in analisi geopolitiche, Andrea Gaspardo mette a confronto l’andamento del PIL nei diversi paesi rispetto ai valori del 1991, ultimo anno di esistenza dell’Unione sovietica. [2] 
A metà anni ’90 il PIL era sceso anche del 30, 40, 50%: un crollo terribile, le cui conseguenze, anche psicologiche, hanno influito sugli avvenimenti successivi.
La ripresa avviene poi con tempi e velocità diversi nei singoli paesi: in alcuni è rapida (repubbliche baltiche e alcuni paesi centro-asiatici, che peraltro partivano da livelli bassissimi); quasi tutti gli altri raggiungono e superano i livelli del 1991 nei primi anni 2000 (compresa la Georgia, che pure ha subito una guerra con Mosca); Ucraina e Moldavia, alla vigilia della guerra, non hanno ancora raggiunto il PIL del 1991.
Perché l’Ucraina, pur favorita dalla fertilità delle sue terre agricole, dall’esistenza di una base industriale solida e di una manodopera formata da un sistema scolastico di buon livello, è precipitata così in basso, divenendo il primo paese europeo esportatore di manodopera, come l’Italia di inizio Novecento? E ha questa situazione qualcosa a che fare con l’aggressione russa del febbraio 2022?
Ovviamente non abbiamo risposte, ma qualcosa, indirettamente, ci può dire questo quadro impietoso della difficile situazione economico-sociale dell’Ucraina tracciato dal New York Times all’indomani dell’accesso allo status di candidato all’ingresso nella UE [3]: “... L’adesione dell’Ucraina al blocco potrebbe richiedere anni. La Commissione europea ha subordinato lo status di candidato dell’Ucraina a sette revisioni principali del sistema giudiziario e del governo del Paese. Anche mentre combatte l’esercito russo, l’Ucraina dovrà garantire un sistema giudiziario indipendente, eliminare la corruzione ad alto livello, adottare leggi sui media, limitare l’influenza degli oligarchi e migliorare la legislazione sul riciclaggio di denaro e sulla protezione delle minoranze.
Per certi versi, la guerra sembra aver facilitato questi compiti. Lo status degli oligarchi è crollato, in quanto alcuni sono fuggiti e altri hanno perso beni e introiti nei combattimenti, mentre l’economia è diventata più dipendente dagli aiuti esteri che dalle esportazioni di materie prime dominate dagli oligarchi. I servizi di sicurezza, un tempo in parte controllati dietro le quinte da questi titani dell’economia, hanno consolidato la loro posizione di istituzioni che difendono il Paese nel suo complesso, non gli interessi del mondo degli affari
”. 
Per altro verso la guerra ha creato nuovi ostacoli sul cammino dell’accesso dell’Ucraina all’UE: la legge marziale ha messo la museruola all’opposizione, e un suo eventuale prolungarsi renderebbe poco probabile anche la regolare tenuta delle elezioni.

3. Maidan e Donbass
Tra i mali che affliggono l’Ucraina uno dei più importanti, accanto alla corruzione endemica, è, come riconosce lo stesso NYT, l’eccessivo peso degli oligarchi nella politica del paese. Mentre Putin, andato al potere nel 1999 con l’unico immane compito di tirar fuori il paese dal baratro in cui era precipitato negli anni di Eltsin, riesce, grazie anche a una congiuntura economica molto favorevole, a dare stabilità a una Russia riportata sotto il controllo degli apparati, allontanando gli oligarchi dalla sfera politica [4], lo stesso non accade in Ucraina, dove al governo, come presidenti o primi ministri, si susseguono vari oligarchi e loro rappresentanti, e spesso la politica si riduce alla difesa dei diversi interessi, anche spostandosi da un partito all’altro. Secondo un quadro disegnato da Limes, sostanzialmente gli oligarchi si dividono il paese su base territoriale: a Kiev domina il settore finanziario rappresentato politicamente dal partito socialdemocratico; a Dniepropetrovsk prevale il settore energetico legato al nuovo partito, Unione panucraina, fondato dalla “principessa del gas” Julija Tymoshenko, famosa e spregiudicata paladina della rivoluzione arancione; e infine la lobby di Donetsk, promotrice della nascita del Partito delle regioni da cui proviene Yanukovic, è forte in ambito minerario e metallurgico. [5]
Lo stesso Volodymir Zelensky, apparentemente estraneo al sistema oligarchico, è in realtà lautamente sostenuto da uno degli oligarchi più ricchi d’Ucraina, Ihor Kolomoisky, finanziatore della squadra di calcio di Dniepropetrovsk e del battaglione Dniepr, quasi una milizia privata, nonché proprietario della TV 1+1 che ha lanciato Zelensky, noto per il suo ruolo di comico-presidente in una fortunata serie televisiva, “Servitore del popolo”, lo stesso nome che avrà il suo partito.

Ma è giunto il momento di ripercorrere, a volo d’uccello, la cronaca di questi trent’anni.
Le difficoltà economiche che continuano e si aggravano anche molti anni dopo il trauma degli anni ’90 spingono la popolazione a protestare nelle piazze.
Due in particolare i momenti di svolta: la rivoluzione arancione del 2004 e l’euromajdan dieci anni più tardi.
Con rivoluzione arancione s’intende il movimento di protesta sorto in Ucraina all’indomani delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004, vinte dall’esponente governativo Viktor Yanukovic contro lo sfidante Viktor Yushcenko e tacciate di brogli; imponenti manifestazioni di piazza si susseguono per un mese e le elezioni vengono annullate e ripetute tre mesi dopo. A vincerle questa volta è Yuschenko. Ben presto, tuttavia, i contrasti interni alla coalizione vincitrice ne minano la capacità di governare, e infatti alle successive elezioni (nel 2007) Yuschenko non verrà rieletto, ma prima di uscire di scena, con un gesto gravido di conseguenze per il paese, dichiarerà Stepan Bandera eroe nazionale dell’Ucraina.
Majdan, in ucraino, significa piazza, ma ormai il nome indica, almeno in Italia, una specifica piazza: la grande piazza dell’Indipendenza, a Kiev, teatro di imponenti manifestazioni popolari. Le elezioni del 2010 sono vinte nuovamente da Yanukovic, questa volta senza contestazioni. Con Yanukovic il paese prosegue la sua marcia di avvicinamento all’Occidente, e nel 2011 avvia una trattativa con l’Unione europea per un trattato di libero scambio, trattativa che però interrompe nel 2013, ritenendo troppo onerose le condizioni per i prestiti richieste dalla UE (che chiede riforme politiche e strutturali e misure di austerità) e si avvicina a Mosca, che offre prestiti senza condizioni e gas a prezzi di favore. [6]
Questa scelta provoca immediate proteste a Kiev che presto si estendono ad altre città nell’ovest del paese, alimentate da quello che viene percepito come il tradimento di una promessa di benessere, e incoraggiate (e indirizzate) da un’onnipresente propaganda occidentale (giungono addirittura ad arringare la folla di manifestanti l’ex-candidato alla presidenza degli Stati Uniti John McCain e la sottosegretaria agli esteri in carica Victoria Nuland, mentre in meno di una settimana l’opposizione trova le competenze tecniche e le risorse finanziarie per aprire tre nuovi canali televisivi).
Le proteste, dapprima pacifiche, diventano sempre più violente e vi partecipano attivamente gruppi di provocatori, sino a culminare nella carneficina del 20 febbraio 2014, che lascia sul terreno centinaia di feriti e almeno 80 morti, tra poliziotti e manifestanti.
La maggioranza dei media si affretta a presentare il massacro come opera della polizia e per la folla è la miccia decisiva per chiedere le dimissioni di Yanukovic. Poco importa se da subito si accerta che poliziotti e manifestanti sono stati colpiti dagli stessi cecchini e gli spari arrivano dal quartier generale dell’opposizione [7], la sorte di Yanukovic è ormai segnata. 
Due giorni dopo la fuga di Yanukovic il Parlamento vota, a grande maggioranza, l’abolizione della legge che protegge le lingue minoritarie. Benché una legge che impone l’uso massiccio dell’ucraino in tutti gli ambiti della vita civile vedrà la luce solo nel 2019, Crimea, Donbass, Odessa, tutte zone a forte presenza russofona, avvertono il pericolo.
In Crimea il Parlamento locale indice un referendum per aderire alla Federazione russa. Voterà l’83% degli elettori e si esprimerà a favore dell’annessione oltre il 96%. Il referendum, contestato dalla piccola minoranza tatara, non è riconosciuto né dal governo di Kiev né dalla grande maggioranza dei paesi, ma è difficile ritenere che il risultato non rispecchi i sentimenti della maggioranza della popolazione (anche se, probabilmente, di una maggioranza un po’ meno “bulgara”).
Diversa la situazione nelle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina, dove i legami storici con la Russia non sono gli stessi della Crimea, e dove il russo, pur universalmente usato, viene però indicato come lingua madre solo da una minoranza della popolazione. Più che di annessione alla Russia le rivendicazioni oscillano tra l’indipendenza e un’ampia autonomia nel quadro di un’Ucraina federale. Manifestazioni “federaliste” o “anti-majdan” e contromanifestazioni “pro-majdan” si svolgono in tutte le principali città della regione, da Kharkiv a Odessa, da Donetsk a Mariupol.
Seguono mesi di tensione e di grande confusione: in molte città i manifestanti assumono il controllo delle amministrazioni locali sino a che non ne sono cacciati dalla polizia o dall’esercito. Al termine di questa fase di scontri, nelle zone più saldamente in mano ai separatisti, che comprendono gran parte delle province di Donetsk e di Lugansk, vengono organizzati referendum, non riconosciuti dalla comunità internazionale, che sanciscono la separazione dall’Ucraina e la nascita delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. La lunga tragedia del Donbass ha inizio.

Nel frattempo (il 2 maggio 2014) a Odessa, la grande città portuale russofona e tollerante, militanti neonazisti affiancati da gruppi di tifosi ultrà attaccano un accampamento anti-majdan obbligando i manifestanti a cercare rifugio nella vicina casa dei sindacati. Il bilancio ufficiale degli incidenti che seguono parla di oltre 40 morti e diverse centinaia di feriti, nella quasi totalità manifestanti anti-majdan uccisi dal fumo di un incendio sviluppatosi in un’ala del palazzo, o gettatisi nel vuoto, o strappati ai soccoritori mentre venivano evacuati. [8]  
L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani affermò nel suo rapporto del 2016: “i procedimenti penali [...] sembrano essere stati avviati in modo parziale. Finora sono stati perseguiti solo attivisti del campo 'pro-federalismo', mentre la maggioranza delle vittime erano sostenitori del movimento 'pro-federalismo'. [...] Le indagini sulle violenze sono state affette da carenze istituzionali sistemiche e caratterizzate da irregolarità procedurali, che sembrano indicare una riluttanza a indagare e perseguire realmente i responsabili”. [9]
Dello stesso tenore le conclusioni della commissione d’inchiesta nominata dal Consiglio d’Europa. [10] 

Germania, Francia, Russia e Ucraina, con il sostegno dell’OCSE, avviano colloqui per fermare le ostilità. A settembre si giunge al primo accordo di Minsk, seguito nel febbraio 2015 da un secondo accordo, firmato anche dalle repubbliche separatiste. Prevede un cessate il fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri, l’invio di aiuti umanitari, il ritiro delle armi pesanti, e l’impegno del governo di garantire maggiore autonomia alle regioni di Donetsk e Lugansk.
Un accordo, come si vede, molto ampio e ambizioso, la cui implementazione avrebbe potuto mettere fine alla guerra civile che aveva già fatto migliaia di morti, ma che richiedeva una dose di coraggio forse eccessiva a tutte le parti, ai dirigenti separatisti timorosi di cedere le armi prima di avere ottenuto adeguate garanzie, e soprattutto al presidente Poroshenko che avrebbe dovuto affrontare accuse di avere ceduto alle richieste dei secessionisti e di attentare all’unità nazionale. [11] 
Come è noto, gli accordi di Minsk restano praticamente lettera morta, e il nuovo presidente, l’oligarca Petro Poroshenko, si imbarca in una politica fortemente nazionalista imponendo l’uso della lingua ucraina nelle scuole, le università, le trasmissioni radio e televisive, favorendo il distacco della Chiesa ucraina dal patriarcato di Mosca, rafforzando l’esercito con l’arrivo di istruttori stranieri e l’immissione nei ranghi dell’esercito regolare delle milizie neo-naziste, impegnate soprattutto nella guerra contro i separatisti.
Tutto questo però non tocca molto la popolazione, preoccupata per la corruzione dilagante e per il deterioramento delle condizioni di vita, anche a causa degli aumenti tariffari seguiti alla liberalizzazione dei servizi essenziali, imposta dal Fondo monetario per concedere nuovi prestiti. Così, cinque anni dopo Majdan, nella primavera del ’19, Poroshenko è sonoramente sconfitto (70 a 30%) da un giovane attore, presentatosi con un programma di lotta alla corruzione e ai privilegi. [12] 

4. L’aggressione: perché?

 
 Premessa
Il 24 febbraio 2022 la Russia inizia una guerra non dichiarata contro l’Ucraina.
Non abbiamo nessun timore a parlare di aggressione russa: certo, noi che siamo sempre stati dalla parte delle vittime e fermi nella denuncia dell’aggressore non abbiamo nessun bisogno di demonizzare Putin, e anzi cerchiamo di capire cosa sta realmente accadendo al di là dei bollettini di propaganda bellica, e di mantenere una visione equilibrata del conflitto.
Quindi nessuna confusione con coloro, la grande maggioranza dei partiti politici, del governo, delle televisioni e della stampa, per cui la colpa di tutto è del macellaio pazzo Vladimir Putin, impegnato a combattere non solo l’Ucraina, ma i Valori Occidentali della Democrazia e del Diritto, di cui i governi europei si riempiono molto la bocca, tanto più quanto più se li mettono sotto i piedi nei fatti.
Di questa continua negazione dei più elementari diritti umani solennemente proclamati dall’ONU e dalla nostra Costituzione offre quotidiana testimonianza il trattamento riservato ai profughi e ai richiedenti asilo, vittime di guerre (naturalmente “umanitarie”) che noi abbiamo scatenato, di disastri ambientali frutto del nostro sfrenato sfruttamento del pianeta, di una fame generata non da disastri naturali ma da speculazioni di borsa.
L’esemplare, generosa, immediata solidarietà deliberata dai governi europei per i profughi ucraini, mostrando cosa può fare l’Europa quando c’è la volontà politica, è un’ulteriore dimostrazione dell’ipocrisia dei governi europei [13], [14]. Anche il diritto all’autodeterminazione è variabile: vale per gli albanesi del Kossovo che vogliono staccarsi dalla Serbia, ma non per i serbi della Krajna che desiderano separarsi dalla Croazia o per i russi della Crimea nei confronti dell’Ucraina.
Fatta questa premessa, che riguarda esclusivamente chi scrive, vediamo quali sono gli obiettivi ufficialmente dichiarati dal Cremlino per motivare l’intervento. Premesso che se anche fossero tutti validi non giustificherebbero l’aggressione, cerchiamo di capire se, e in che misura, potrebbero avere avuto un peso effettivo nelle decisioni, e vediamo poi alcune ipotesi su quali potrebbero essere le vere ragioni dell’intervento.

L’accerchiamento
Il timore dell’accerchiamento da parte di potenze nemiche è profondamente radicato nell’animo dei dirigenti e della popolazione russa.
La storia della Russia è una storia di espansione, verso sud e verso est, ma è anche, e soprattutto, una storia di guerre (qualche volta vinte, qualche volta perse) contro gli attacchi e le occupazioni straniere, provenienti da est (i mongoli di Gengis Khan), da ovest (Cavalieri teutonici, lituani, polacchi, svedesi … sino alla Francia napoleonica e alla Germania hitleriana), da sud (ottomani, inglesi, francesi; in Crimea intervenne anche il piccolo Piemonte).
Particolarmente drammatica l’esperienza della guerra civile tra “rossi” e “bianchi”, che per cinque anni, tra il 6 novembre 1917 e il 25 ottobre 1922, insanguina il paese e vede corpi di spedizione stranieri (tra cui americani, cecoslovacchi, francesi, giapponesi, inglesi, italiani, polacchi, turchi) intervenire a fianco delle truppe controrivoluzionarie sia per contrastare la diffusione delle idee comuniste, sia per ottenere la ripresa delle ostilità contro gli imperi centrali, cessate con la firma del trattato di pace (Brest-Litovsk, 3 marzo 1918), fermamente voluto dal governo bolscevico malgrado le pesanti condizioni imposte alla Russia.
Ancora più pesante il tributo di sangue pagato dall’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale, stimato tra i 21 e i 27 milioni di morti, quasi la metà del numero totale di vittime del conflitto (oltre 10 milioni di cinesi, 7 milioni di tedeschi, 6 milioni di ebrei di varie nazionalità, 3 milioni di polacchi non ebrei, 2,5 milioni di giapponesi, oltre un milione di jugoslavi …), un sacrificio enorme, determinante per la vittoria contro il nazifascismo (anche se tendiamo a dimenticarcene, oltre l’80% delle perdite naziste in uomini e mezzi avvenne a opera dei sovietici).
Dopo la breve stagione dell’unità antifascista, prima ancora della fine della guerra, emergono le vecchie diffidenze, per non dire ostilità, nei confronti dell’Unione sovietica, in particolare da parte di Churchill (che nel famoso discorso di Fulton, negli Stati Uniti, il 5 marzo del 1946 lancerà l’allarme sulla “cortina di ferro”): molti interpretano in questo senso i pesanti bombardamenti angloamericani degli ultimi mesi di guerra sulle città della Germania orientale, tra cui il devastante bombardamento di Dresda, che lasceranno ai vincitori sovietici solo cumuli di macerie. Nello stesso senso vengono letti i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki dell’agosto 1945 per obbligare i giapponesi alla resa, ufficialmente per risparmiare ai militari americani una sanguinosa campagna di terra per la conquista del paese, più probabilmente per evitare l’entrata in guerra dell’URSS e le conseguenti concessioni territoriali concordate a Jalta. (Le cose, come è noto, andarono diversamente: il Giappone non si arrese immediatamente consentendo ai sovietici di occupare in poche settimane la Manciuria, le isole Curili e parte della Corea, con conseguenze che si fanno sentire ancora oggi).
Nel 1947 il presidente Truman formula la dottrina secondo la quale la sicurezza interna  degli Stati Uniti richiede di intervenire in qualunque parte del mondo in difesa di un governo “libero”, cioè filo-americano, anche “incoraggiando” i paesi europei a escludere dal governo i partiti comunisti.
Inizia così il lungo periodo della “guerra fredda”, che ci illudevamo fosse finito con l’implosione dell’URSS una trentina d’anni fa, ma che invece continua ancora oggi, sempre meno fredda.
Negli anni ’50 gli Stati Uniti avviano la costituzione di alleanze militari con tutti i paesi che circondano l’Unione sovietica e i suoi alleati europei. Nascono così il patto atlantico, dal Canada alla Turchia, la CENTO (dalla Turchia al Pakistan) la SEATO (Sud-Est asiatico): a eccezione dell’India, l’accerchiamento è completo.
Negli anni ’70, con l’avvio della distensione, le ultime due alleanze vengono sciolte, mentre si raggiungono alcuni importanti accordi per fermare la corsa agli armamenti, e poi addirittura per ridurli.
Nuova inversione di tendenza negli anni ’90, quando gli Stati Uniti, ormai unica superpotenza, sentono di avere le mani libere per poter decidere autonomamente i destini del mondo. Le istituzioni internazionali come l’ONU che, pur con tutti i suoi limiti, aveva dato la speranza di un mondo basato sul diritto e non sulla forza, sono via via sempre più emarginate. 
Sui rapporti tra Stati Uniti e Russia nell’ultimo trentennio ritorniamo ampiamente nel prossimo capitolo, ma è chiaro che il continuo allargamento a est dell’alleanza atlantica, contro ogni impegno assunto nel momento in cui Gorbaciov smantellava il patto di Varsavia, è visto a Mosca con preoccupazione, timore, e come un chiaro segno della malafede dei governi occidentali. [15]
Nell’opinione di molti, tra cui anche il “falco” per eccellenza, l’ex-Segretario di Stato di Nixon, Henry Kissinger, l’Occidente sbaglia a non tener conto di questa preoccupazione. [16]

Pur riconoscendo l’importanza per la Russia (non solo per Putin o per il governo) di evitare l’ingresso dell’Ucraina nella NATO, resta la domanda dirimente: l’aggressione ha avvicinato, o non ha piuttosto allontanato, l’obiettivo di un’Ucraina neutrale? Se questo era l’obiettivo, non c’erano altre strade, meno sanguinose, per raggiungerlo? E perché non avviare rapidamente trattative di pace quando, qualche mese fa, il presidente Zelensky, non ancora abbagliato da improbabili prospettive di “vittoria”, non aveva escluso l’ipotesi di un’Ucraina neutrale?

La denazificazione
Il secondo obiettivo indicato dal Cremlino per la sua “operazione speciale” contro l’Ucraina è la denazificazione del paese. Qui sembra veramente di essere alla “esportazione della democrazia”, la foglia di fico con cui l’Occidente cerca di coprire le nostre aggressioni ai popoli del Medio Oriente. E non perché in Ucraina non ci siano nazionalisti filonazisti, anzi! Ci sono (e sono riconoscibili come tali non perché ne adottano i simboli, ma ne adottano i simboli perché sono nazisti per ideologia e modalità di azione), violenti, ferocemente anti-russi, fortemente armati, molto influenti sulle scelte governative, ben al di là della loro forza elettorale.
Provengono da questa galassia i cecchini di piazza Majdan e i responsabili, rimasti impuniti, del massacro di Odessa.
Ma è soprattutto la scelta governativa di utilizzare le milizie armate neonaziste contro le province secessioniste, inserendole successivamente nei ranghi dell’esercito regolare, che conferisce a queste bande, ai loro capi, alla loro ideologia, un crescente potere.
Recentemente il presidente Zelensky ha dichiarato “eroi dell’Ucraina” i comandanti di due di queste unità (“Azov” e “Settore destro”), come se il valore mostrato nel combattere l’esercito russo potesse cancellare la lunga storia di sopraffazione e violenza contro gli oppositori.
Se abbiamo qualche dubbio sulla reale importanza attribuita dal Cremlino alla denazificazione dell’Ucraina, i dubbi si moltiplicano quando si viene allo strumento utilizzato, la guerra, il cui risultato sinora è stato, com’era del resto facilmente prevedibile, quello di legittimare ulteriormente i gruppi neonazisti combattenti. Tanto più se anche da parte russa si utilizzano gruppi ultranazionalisti e mercenari, come testimonia, tra le altre, una rassegna del giornale dell’ANPI, la grande associazione democratica italiana accusata di “putinismo” per non essersi imbarcata nel coro atlantista dominante. [17]
Tuttavia il risorgere di simpatie fasciste o naziste, in Ucraina come in tutta Europa, non è un problema che dovrebbe preoccupare soltanto i russi, ma tutti noi. Per anni queste recrudescenze sono state tollerate nei fatti, pur continuando a condannarle a parole; ora anche quest’ultimo velo è caduto, e gli esiti sono sotto gli occhi di tutti, ad esempio con i risultati elettorali in Italia e in Svezia.
Quasi ovunque, negli Stati Uniti come in Europa, le forze conservatrici hanno aperto le porte a ideologie e gruppi reazionari e razzisti, quando non apertamente neonazisti, rinnegando nei fatti quegli stessi ideali a cui diciamo di ispirarci.
Questa involuzione era già ben presente in Ucraina otto anni fa, come denunciato chiaramente da alcuni giornalisti, tra cui Maria Grazia Bruzzone in un suo documentatissimo e preoccupato articolo su “la Stampa” [18] e John Pilger sul “Guardian” [19] in un articolo preveggente dal titolo significativo "In Ucraina gli Stati Uniti ci stanno trascinando in una guerra con la Russia".
Da allora le cose non sono certo migliorate, e dubito che oggi  una di quelle due testate pubblicherebbe articoli critici verso le politiche della NATO.

Protezione Donbass
Anche il terzo motivo avanzato per giustificare l’attacco, la protezione delle popolazioni del Donbass, appare alquanto pretestuoso. E non perché queste popolazioni, ignorate dall’opinione pubblica e abbandonate dalla solidarietà internazionale, non necessitino di un aiuto urgente.
In otto anni di guerra sono oltre diecimila le vittime, centinao le infrastrutture, le scuole, gli ospedali, le abitazioni bombardate, un milione e mezzo i profughi, fuggiti per metà verso l’Ucraina occidentale e per metà verso la Russia, quasi un milione i “finti rifugiati”, pensionati che ogni mese devono compiere un pericoloso viaggio verso ovest per riscuotere la pensione, che il governo versa solo ai residenti nelle zone controllate da Kiev.
Le violazioni dei diritti umani, da una parte e dall’altra, sono quotidiane.
L’economia di quella che era una delle zone più ricche del paese è in pezzi.
L’aiuto, militare ed economico, della Russia alle due repubbliche è a malapena sufficiente a mantenerle in vita.
Un dramma durato otto anni, nella più completa indifferenza della comunità internazionale, che sembra scoprirlo solo oggi, con l’entrata in guerra della Russia.
Quanto alla sollecitudine di Putin per le popolazioni del Donbass, ecco cosa scrive la giornalista RAI Francesca Fornario in un testo circolato in rete nelle prime settimane del conflitto. Dopo avere affermato che le guerre, tutte le guerre, le vincono sempre i ricchi e le perdono sempre i poveri, scrive:
La [guerra la] vince Putin riconoscendo l’indipendenza del Donbass con otto anni di ritardo, premurandosi che le repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk passassero nelle mani di affaristi vicini al Cremlino e usando la protezione di un popolo che per otto anni ha lasciato massacrare come pretesto per invadere militarmente l’Ucraina e sistemare i conti con gli Stati Uniti, con l’Europa nel ruolo della torta da spartire.
Ci sembra un giudizio condivisibile, anche se gli affaristi vicini al Cremlino (cioè che facevano affari con la Russia) c’erano assai prima del 2014.

Un precedente
Una vicenda analoga, in un’epoca e in un contesto molto diversi, ha avuto luogo quasi due secoli fa in America. Vale la pena di raccontarla perché è una storia poco conosciuta, o conosciuta soprattutto attraverso il racconto dei vincitori. Ciascuno poi valuterà se vi sono somiglianze, ed eventualmente quali, con i fatti di oggi.
Quando nel 1835 il presidente messicano Antonio López de Santa Anna, per vincere le diffuse resistenze alla modernizzazione del paese, abroga la costituzione federalista del 1824 e impone una riforma centralizzatrice che estende a tutto il Messico le leggi nazionali, tra cui l’abolizione della schiavitù e l’accesso alle carriere pubbliche anche dei non bianchi, numerosi stati, gelosi delle proprie autonomie e dei propri privilegi, si ribellano. Tra questi il Texas, dove i coloni di origine nordamericana erano divenuti più numerosi della popolazione messicana, è l’unico a conquistare e mantenere l’indipendenza. Le truppe governative , inviate per sedare la rivolta, dopo una vittoria iniziale a Fort Alamo, vengono sconfitte nella battaglia di San Jacinto del 21 aprile 1836.
Seguono nove anni di stallo, con dibattiti tra favorevoli e contrari all’annessione sia in Texas che negli Stati Uniti (dove a opporsi sono soprattutto gli stati del Nord che paventano il rafforzamento del fronte schiavista), sinché la vittoria del presidente James Knox Polk, deciso sostenitore di una politica di espansione territoriale, non porta rapidamente all’annessione del Texas (che nel frattempo ha votato una Costituzione che prevede esplicitamente il mantenimento della schiavitù) il 29 dicembre del 1845.
Immediatamente il presidente Polk invia truppe americane in Texas, costringendo il Messico a dichiarare la guerra. Questa è da subito caratterizzata dalla netta superiorità degli americani, che arriveranno a occupare Città del Messico, e si concluderà due anni dopo (trattato di Guadalupe Hidalgo del 2 febbraio 1848) con la cessione da parte del Messico di oltre metà del suo territorio: oltre al Texas, l’Arizona, la California, il Colorado, il Nevada, il Nuovo Messico e l’Utah.

I motivi reali
Sarà difficile conoscere le ragioni reali che hanno indotto la Russia a sferrare l’attacco contro l’Ucraina: forse l’illusione di una facile vitoria, forse la necessità di allontanare la minaccia rappresentata dalla concentrazione di grandi forze militari a ridosso delle due repubbliche autonome, forse il desiderio di mandare agli Stati Uniti un segnale preciso di “limite invalicabile”.
Certo, a giudicare dai risultati apparenti (rafforzamento della coesione interna della NATO e suo allargamento a due nuovi membri, aumento generalizzato delle spese militari, efficacia della  resistenza ucraina) il bilancio è del tutto negativo. Scrivevamo queste righe in primavera e oggi, dopo la controffensiva ucraina, l’annessione delle quattro province e il ricorso alla leva obbligatoria per colmare le perdite al fronte, le prospettive per il Cremlino sembrano ancora più scure.
Ricordando l’intensa campagna allarmistica americana nelle settimane precedenti l’attacco russo viene quasi il dubbio che Putin possa essere caduto in una trappola americana, volta a esaurire le risorse, economiche e umane, della Russia, al minimo costo per gli Stati Uniti, come suggerito, tra l’altro, da un noto studio della Rand Corporation del 2019. [20]
In questo caso, poi, il logoramento della Russia non solo è a costo zero per gli Stati Uniti, pagato com’è dal sangue ucraino e dai soldi europei, ma presenta rilevanti guadagni economici oltre che politici. Si pensi, prima di tutto, all’aumento delle spese militari, destinate in massima parte all’industria bellica americana (primo paese esportatore di armi nel mondo, con circa il 40% del totale); si pensi agli ingenti investimenti legati alla necessaria ricostruzione del paese; si pensi, anche, all’enorme speculazione indirettamente consentita dalla guerra sul prezzo del gas, oltre a spalancare le porte dell'Europa al gas liquefatto americano, assai più costoso e pericoloso del gas russo o arabo. (Sul tema della speculazione sul gas torneremo ampiamente nel capitolo 7).
La tesi della trappola viene sostenuta dall’esperto americano Michael Brenner, ostracizzato dal potere per le sue posizioni critiche nei confronti della politica estera americana, che legge la politica dell’amministrazione Biden verso l’Ucraina come una successione di provocazioni nei confronti della Russia destinate a provocarne l’intervento, necessario per convincere gli alleati europei a imporre sanzioni sempre più pesanti alla Russia. In quest’ottica sottolinea, accanto alle numerose provocazioni americane negli anni e nei mesi precedenti l’attacco russo (dal rinnovo dell’armamento e addestramento dell’esercito ucraino al bellicoso accordo di partenariato firmato nel novembre 2021), la stretta coincidenza tra gli annunci (americani) di un imminente attacco russo e l’intensificarsi dei bombardamenti ucraini sul Donbass insieme alla concentrazione di truppe in vista di un attacco finale alle province ribelli, a cui Mosca non avrebbe potuto non rispondere. [21]
Radicalmente diverso l’approccio dell’economista Emiliano Brancaccio, secondo il quale il conflitto in corso perde le sue peculiarità (chi lo combatte, dove, chi l’ha iniziato) e diventa un semplice episodio, purtroppo non l’ultimo, di uno scontro epocale tra capitalisti creditori (Cina, Russia) e capitalisti debitori (USA, Europa). In quest’ottica il conflitto ucraino sarebbe determinato da un insieme di circostanze che rendono l’opzione “guerra” più attraente (o meglio “meno costosa”) dell’opzione “pace”, sia per la Russia che per la NATO (il vero attore nella guerra in corso in Ucraina). [22]

 
A Kharchiv è nato mio figlio
Francesca Fornario (https://emigrazione-notizie.org/?p=37445)

A Kharchiv è nato mio figlio, risiedono i miei amici, ci sono andata - vedo dai timbri sul passaporto - 19 volte, per settimane.
Una volta, un operaio che come molti aveva perso il posto con la dismissione dell’industria di stato mi ha confidato: "Tutti noi, da ragazzi, volevamo che l’Unione Sovietica cambiasse, ma un pochino! ("ciù-ciù"), non così! Prima noi avevamo la casa, il lavoro, la scuola, ora ci hanno tolto tutto!".
In ospedale, se non ti porti i cerotti da casa, ti mettono il nastro adesivo.
Ora è tappato in cantina con la sua famiglia: “Stanno bombardando a pochi chilometri da qui!".
Un’altra volta discutevamo della corruzione negli uffici pubblici, degli avvocati ai quali in Ucraina devi rivolgerti per ottenere il rispetto dei diritti, di quella che aveva fatto carriera e si era comprata la villa facendo l’avvocato. L’anziana madre ha scosso la testa sconsolata: “Ai miei tempi nessuno voleva fare l’avvocato. Gli avvocati li disprezzavamo. I mestieri che tutti volevamo fare erano l’insegnante, il dottore: questi erano i lavori più belli! Adesso una che fa l’avvocato è più importante di una che fa la maestra?! Ti rendi conto!". Che paese è quello dove la giustizia l’assicurano gli avvocati? e i soldi per pagarli?
È in cantina pure lei, con il nipote che piange per la paura dei missili. “Non sappiamo bene chi spara" e non fa più differenza: se i missili li spara Mosca o se invece li spara Kiev e ti cadono in testa tu muori uguale.
Un’altra volta eravamo in un bar. Un giovane e ricco architetto spiegava a una ragazza cresciuta in orfanotrofio che "Quando c’era il comunismo non c’era libertà": "Se volevi portare la tua famiglia al ristorante non potevi scegliere, c’era solo un ristorante. Se volevi regalare una tazza a una tua amica potevi scegliere solo tra quella con il bordo blu e quella con il bordo rosso". E lei: "Ma potevi andare al ristorante. Potevi comprare la tazza. Io oggi non ho i soldi per andare al ristorante e nemmeno quelli per comprare la tazza".
In pochi anni ho visto la storia ucraina cambiare sotto i miei occhi, nelle vetrine e nelle didascalie del museo di storia, dove la memoria dell’Unione Sovietica è stata rimossa e sostituita con l’esaltazione dell’oligarchia ("l’Ucraina è diventata grande sul finire dell’Ottocento grazie alla concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di poche famiglie illuminate") e delle gesta di Stepan Bandera, l’alleato di Hitler responsabile dell’eccidio degli ebrei ucraini e del genocidio di decine di migliaia di polacchi. Ora il giorno della sua nascita è festa nazionale.
La storia la scrivono i ricchi perché la vincono loro. Cancellare la memoria della rivoluzione bolscevica e del ruolo dell’Armata Rossa nella lotta contro il nazifascismo è servito a un miliardario ebreo come Kolomoisky, l’editore del comico Zelensky, a finanziare da Israele le incursioni armate in Donbass dei miliziani neofascisti con la svastica cucita sulla mimetica che da anni scatenano in Ucraina la guerra che solo oggi che la scatena Putin fa notizia: da anni uccidono i civili, bombardano scuole e ospedali.
"Sei contro la guerra perché sei buonista", mi ha detto uno che o stai con Putin o stai con la Nato, come se fossero quelli gli schieramenti.
«No, sono contro la guerra perché sono realista». E la realtà è che la guerra il mio schieramento - la sterminata moltitudine di poveri cristi - non la vince mai.
Non vince mai la guerra e nemmeno la pace.
Da nessuna parte e tanto meno in Ucraina. Durante la guerra cercano riparo in cantina, durante la pace è stata loro imposta un’altra lingua a scuola e negli uffici pubblici, hanno perso il lavoro, il potere d’acquisto di stipendi sempre più miseri, il diritto alla pensione che si allontana nel tempo.
La guerra la vincono solo gli oligarchi di ogni latitudine, anche quando la perdono. La vincono moltiplicando l’export delle armi che producono, passando in pochi anni da una quota del 32 per cento del mercato mondiale al 37, come hanno fatto gli Stati Uniti a forza di scatenare conflitti armati e imporre di spendere una quota di pil superiore a quella investita nella ricerca e negli asili nido per acquistare armi da guerra ai paesi alleati che la guerra la ripudiano. La vincono imponendo sanzioni che si traducono in vantaggi economici per i pochi molto ricchi di quel paese e in perdite per i poveri cristi che pagano le bollette.
La vince Putin riconoscendo l’indipendenza del Donbass con otto anni di ritardo, premurandosi che le repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk passassero nelle mani di affaristi vicini al Cremlino e usando la protezione di un popolo che per otto anni ha lasciato massacrare a pretesto per invadere militarmente l’Ucraina e sistemare i conti con gli Stati Uniti, con l’Europa nel ruolo della torta da spartire.
La vincono i potenti affaristi che stabiliscono quali popoli hanno il diritto di autodeterminarsi e quali no, quali profughi vanno accolti e quali no, quali conflitti fanno notizia e quali no, quali cacciabombardieri bombardano gli inermi e quali invece esportano la democrazia, quali paesi vanno sanzionati perché violano il diritto internazionale e quali hanno il diritto di violare il diritto internazionale, quali rivoluzioni popolari sono un colpo di stato e quali colpi di stato sono una rivoluzione popolare.
Lo fanno con la complicità dei giornalisti che si tolgono la mascherina FFP2 e si mettono l’elmetto per raccontare in diretta quello che succede in un paese dove non avevano mai messo piede o non tornavano dai tempi di quella che avevano raccontato come una rivoluzione di popolo e invece era un cambio della guardia al potere.
La guerra la perdono i popoli tutti alla fame, da un lato dell’oceano a indebitarsi per pagare le tasse universitarie e le cure mediche, dall’altro a lavorare per salari più bassi di quelli di 30 anni fa, di giù a sfuggire dai regimi che delle guerre imperialiste sono il prodotto, di su a respingere chi fugge dalle guerre e dare a lui la colpa del nostro impoverirci.



La guerra che verrà non è la prima
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.
Bertold Brecht



[1] Bastano poche cifre per testimoniare il dramma economico, sociale e demografico vissuto da questi paesi negli anni seguiti alla fine dell'URSS. Nella tabella seguente sono raccolti i dati del reddito pro-capite tra il 1991 e il 2021 (tutti espressi in potere d'acquisto di dollari 2017, quindi confrontabili tra loro) e alcuni indicatori socio - sanitari, tra cui l'indice di sviluppo umano, un indice composito utilizzato come misuratore di benessere (max 1). (I dati del reddito sono tratti da https://data.worldbank.org, gli altri indici da https://ourworldindata.org)


1991

2001

2011

2021


Reddito pro capite, Russia

20340

15378

24972

27970


Reddito pro capite, Ucraina

14968

8243

12933

12944


Indice sviluppo umano (HDI), Russia

0,73

0,73

0,79

0,82

(2017)

Indice sviluppo umano (HDI), Ucraina

0,7

0,68

0,74

0,75

(2017)

Speranza di vita, Russia, Uomini

62,7

59,1

64,6

68,8

(2019)

Speranza di vita, Russia, Donne

73,9

72,3

76,2

78,8

(2019)

Speranza di vita, Ucraina, Uomini

63,9

62,7

66,5

69,2

(2019)

Speranza di vita, Ucraina, Donne

74

73,8

76,1

79,6

(2019)

Mortalità infantile (per mille), Russia

21,5

18,3

10,1

5,4

(2020)

Mortalità infantile (per mille), Ucraina

19,3

17,4

11,2

8,1

(2020)

Spesa per l'istruzione, Russia


3,1

3,8

4,7

(2018)

Spesa per l'istruzione, Ucraina


4,7

6,2

5,4

(2019)

 
[14] sulle donazioni 
[15] Sull’impegno di non espansione oltre la DDR:
https://it.insideover.com/guerra/quel-verbale-nato-del-1991-che-imbarazza-biden.html
Sul timore dell’accerchiamento ostile, vedi 
https://www.nytimes.com/2022/02/16/world/europe/poland-missile-base-russia-ukraine.html?
[16] Nel 2014 Kissinger scriveva: “La discussione pubblica sull’Ucraina riguarda il confronto. Ma sappiamo dove stiamo andando? Nella mia vita ho visto iniziare quattro guerre con grande entusiasmo e sostegno pubblico, tutte che non sapevamo come finire e da tre delle quali ci siamo ritirati unilateralmente. Il test della politica è come finisce, non come inizia. Troppo spesso la questione ucraina viene presentata come una resa dei conti: se l’Ucraina si unisce all’Est o all’Ovest. Ma se l’Ucraina vuole sopravvivere e prosperare, non deve essere l’avamposto di nessuna delle due parti contro l’altra: dovrebbe fungere da ponte tra di loro.”
(https://www.washingtonpost.com/opinions/henry-kissinger-to-settle-the-ukraine-crisis-start-at-the-end/2014/03/05/46dad868-a496-11e3-8466-d34c451760b9_story.html)
[17] https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/di-qua-e-di-la-del-fronte-i-gruppi-armati-neonazisti-di-ucraina-e-di-russia/
[18] https://www.lastampa.it/blogs/2014/11/30/news/i-neo-nazi-imperversano-in-ucraina-ma-il-nazismo-non-e-piu-il-male-assoluto-per-l-occidente-br-1.37251621/ 
[19] https://www.theguardian.com/commentisfree/2014/may/13/ukraine-us-war-russia-john-pilger
[20]  https://www.rand.org/pubs/research_briefs/RB10014.html
[21] https://scheerpost.com/2022/04/15/michael-brenner-american-dissent-on-ukraine-is-dying-in-darkness/
[22]  https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2022/06/01/guerra-imperialismo-fazioni/?

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