26 aprile 2022

Intanto nel mondo…

Mentre gli occhi dell’opinione pubblica rimangono puntati su quanto accade in Ucraina, molto accade anche nel resto del mondo. Purtroppo poche e flebili sono le notizie positive che ci fanno sperare che qualcosa domani andrà meglio


Yemen: qualcosa si muove

Finalmente il 2 aprile scorso nel martoriato Yemen è cominciata una tregua di due mesi nel conflitto che vede Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti condurre una  campagna di bombardamenti e di blocco economico contro i territori yemeniti controllati dai ribelli Houthi, divenuti, di fatto, il nuovo governo del paese.
Due giorni dopo l’inizio della tregua – voluta unilateralmente da Ryhad e non sostenuta dagli Houthi- il presidente “internazionalmente riconosciuto”, ma da tempo rifugiato in Arabia, Mansour Hadi, si è dimesso e ha passato il potere a un consiglio presidenziale che dovrebbe condurre colloqui di pace con i ribelli Houthi.
Per quanto significativo, difficilmente questo tentativo avrà successo, date le posizioni divergenti dei componenti il consiglio, ma in ogni caso segnala la volontà dell’Arabia saudita di cercare una via d’uscita a un conflitto che dura da sette anni e che ha provocato uno dei peggiori disastri umanitari al mondo. 
In questi anni sono morte più di 300.000 persone, vittime dirette o indirette della guerra, quattro milioni gli sfollati, venti milioni di persone – i due terzi della popolazione - dipendenti dagli aiuti umanitari, già oggi del tutto insufficienti e che per il 2022 saranno probabilmente ancora decurtati, dato l’aumento dei costi degli alimenti e dei trasporti.
Questa tragedia non scuote le coscienze occidentali, condizionate a emozionarsi solo per quanto propone loro l’informazione ufficiale, e rivela, se ancora ce ne fosse bisogno, tutta l’ipocrisia in cui siamo immersi.




Per la prima volta negli Stati Uniti il sindacato entra in Amazon

Jacobin l’ha definita la più grande vittoria sindacale dagli anni ’30, una vittoria di Davide contro Golia. Dal primo aprile i lavoratori del magazzino Amazon di Staten Island hanno il diritto di avere un sindacato, una vittoria non facile se si pensa che per conseguire questo diritto è necessaria l’approvazione della maggioranza assoluta dei lavoratori, un risultato che solo un anno fa i lavoratori di uno stabilimento in Alabama non erano riusciti a ottenere, anche per le notevoli pressioni esercitate dall’azienda. Pressioni che non sono mancate nemmeno a Staten Island, ma che la determinazione e l’inventiva dei promotori hanno saputo contrastare. Da sottolineare che a raggiungere questo importante traguardo è un sindacato appena costituito, l’Amazon Labour Union, interamente costituito e diretto da lavoratori interni al magazzino, che ora si sta organizzando perché, un passo alla volta, anche altri magazzini aderiscano al nuovo sindacato.



Condannati gli assassini di Sankara

Trentaquattro anni fa veniva assassinato Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso. Oggi il tribunale militare di Ouagadougou, capitale dello stato, ha condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio il suo vice e successore Blaise Compaoré, da anni in esilio in Costa d’Avorio.
Salito al potere con un colpo di stato nel 1983 e sostenuto dalla popolazione, Sankara ha saputo dare concretezza alle sue idee rivoluzionarie, dimostrando che un paese poverissimo - l’allora Alto Volta, da lui rinominato Burkina Faso, il paese degli uomini integri - poteva migliorare le condizioni della popolazione affrancandosi dai suoi potenti protettori. 
Questa sua capacità di dare corpo a un programma anticoloniale e di muovere dure critiche ai paesi del Nord del mondo e alle istituzioni che lo sorreggono, lo hanno portato ad avere relazioni molto tese con la Costa d’Avorio e ancor più la Francia, che a tutt’oggi, malgrado non sia stato possibile dimostrarlo, è ritenuta il vero ispiratore del suo omicidio.


Darfur: all’Aja si apre il processo

Il conflitto del Darfur, regione occidentale del Sudan, iniziato nel 2003 e, nonostante gli accordi di pace del 2020, mai del tutto sopito, ha provocato la morte di almeno 300mila persone e lo sfollamento di altre 2 milioni e mezzo. Le rivendicazioni di autonomia del Darfur, che chiedeva un maggior coinvolgimento nella gestione delle proprie risorse, sono state violentemente represse dal governo sudanese che per quegli orrori è stato incriminato dalla Corte penale internazionale. 
Il 5 aprile si è aperto all’Aja il primo processo per crimini di guerra e contro l’umanità nel Darfur con un unico imputato, Ali Kushayb, leader delle milizie armate che hanno insanguinato l’area, arrestato nel 2020 nella Repubblica Centrafricana dove sembra addestrasse truppe mercenarie.
Rimangono fuori dal processo i principali responsabili, primo fra tutti l’ex presidente Omar al-Bashir, questo per i limiti della Corte, che non può indagare senza la cooperazione e la volontà politica di un governo. La caduta di al-Bashir nel 2019 aveva fatto sperare in una diversa collaborazione, ma il colpo di stato dell’ottobre scorso, con il ritorno della vecchia guardia sudanese, ha vanificato le aspettative.



 

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